mercoledì 17 luglio 2019

giovedì 29 giugno 2017

Centocinquanta anni e un giorno

Centocinquanta anni e un giorno. Centocinquanta estati torride e inverni piovosi, e un giorno. Tanto è passato da quando Luigi Pirandello nacque, in anticipo rispetto a quanto aveva previsto sua madre, nella contrada Càvuso. Nome dialettale che poi lui idealizzò in Kaos, nomen omen della sua prosa e del suo teatro. Si erano trasferiti in campagna da Porto Empedocle per sfuggire al terribile colera, che aveva ricominciato a uccidere in Italia per l'ennesima volta, e così senza volerlo fu marchiato girgentano di nascita. Il caos primigenio, avrebbero detto i greci, continuava a mescolare le carte. Lui sarebbe diventato "il figlio cambiato", avrebbe scritto tanti decenni dopo Andrea Camilleri.

Centocinquanta anni e un giorno fa: una donna gravide, le doglie improvvise, il parto, un nuovo figlio. La vita cambia, in continuazione, e in quel momento la madre Caterina neanche si chiedeva come sarebbe stato il mondo centocinquanta anni dopo. Erano altre le sue preoccupazioni: la famiglia, il futuro dei suoi bambini, il marito.

Cosa sono centocinquanta anni e un giorno, nella storia del nostro pianeta? Nulla, un battito di ciglia. L'abbozzo di un respiro, per le montagne e i mari che pur mutando restano per noi sempre gli stessi. Per noi, invece, quasi un'entità che riusciamo a misurare ma non a capire appieno. E quanti, in centocinquanta anni e un giorno, sono nati, vissuti? Quanti alla fine sono morti? "Il loro ricordo svanisce", dice il libro di Ecclesiaste. I cimiteri sono pieni di statue e lapidi che nessuno più visita.

Ma il poeta, lo scrittore, l'artista, loro hanno un destino diverso: resistere alle pieghe del tempo. Farsi ricordare, centocinquanta anni e un giorno dopo, e farci ancora piangere, sorridere o riflettere. Come se si fossero mutati in alberi secolari, sotto i quali ci si siede per riposare e pensare, e non fossero più le spoglie di uomini fatti un tempo di carne e umori alimentati dal sangue pulsante. Non si sono limitati a tornare in polvere, ma dalle loro ceneri è nato qualcosa.

Oggi ripensiamo a quel 28 giugno 1867 di centocinquanta anni e un giorno fa, e ci rendiamo conto di quanta ineffabile sia la differenza tra il destino di un nascituro e un altro, destino che loro stessi costruiranno con la determinazione o con l'apatia. Sono tutti uguali i bambini, ma le loro vite sono misteriose e imprevedibili e non coincideranno mai.


Bibliografia

  • Ecclesiaste (Qoèlet) 9:5, CEI.
  • Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, 2003

sabato 5 settembre 2015

Lieve come un sogno

Cullato quasi come un tempo faceva tua madre, con le labbra arse dal sale e gli occhi ormai troppo pesanti che non riesci ad aprire per guardare il cielo, stai sognando.

Sogni di quella tua casa, sporca e avvolta spesso da una polvere appiccicosa che entra sotto i vestiti incipriandoti di miseria, e dei suoi divani rivestiti di stoffa a scacchi dove ti piaceva rotolarti.

Sogni dei tuoi giochi infantili condivisi con tuo fratello, entrambi innocenti fino al midollo ma costretti a invecchiare troppo presto, mentre ridevate abbracciati a dei peluche buffi più grandi di te. 

Sogni di quel tuo piccolo giardino, che esploravi ardimentoso tra latte di pittura adibite a fioriere e grandi zucchine, nella speranza di trovare un leone contro cui combattere con il cucchiaio di legno smunto che stringevi forte in mano.

Sogni di quei fastidiosi rumori di strada ma diventati così quotidiani da sapere di focolare per chi è nato e vissuto in un paese di guerra, e ai quali il battito regolare delle onde non riuscirà mai a sostituire la loro struggente bellezza.

Forse sogni anche di quando sarai grande e, vestito a festa e ammirato dalle ragazze del tuo quartiere, uscirai per strada con gli altri compagni di gioco ormai diventati adulti a bere insieme del tè bollente alla menta in una calda giornata d’estate.

Sogna, bambino, dimenticato da tutti in mezzo a un mare così grande e tremendo che neanche nel peggiore dei tuoi incubi avresti immaginato. E cerchi col braccio un appiglio, nella speranza di trovare ancora una volta tua madre come facevi quando dormivi nel letto dei tuoi, ma affondando sempre più in quell’acqua amara.

Hai smesso di sognare. È finito il tempo delle fantasie e delle speranze. Sei rimasto solo, finché un uomo alto e imbarazzato ti ha trovato disteso sulla battigia, dove con la tua maglietta rossa che ti piaceva tanto e i pantaloncini sembrava dormissi nell’attesa che ti riportassero a casa.

Dove sei adesso, sei solo. Nessuno potrà tenerti compagnia in quella strana e nuova casa di legno che ti hanno regalato, accanto ai resti di tua madre e del tuo fratellino. Fuori, la polvere gialla ricopre i visi di chi ti piange perché non potrai sognare più.

© Alberto Arena, settembre 2015. Riproduzione riservata.

In memoria di Aylan Kurdi, fuggito da Kobane e morto in mare a tre anni con la madre e il fratello. Il corpicino è stato ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia.

martedì 27 gennaio 2015

Per non dimenticare

Oggi Twitter e gli altri social network abbondano di riferimenti al Giorno della Memoria e del settantesimo anniversario della liberazione dei prigionieri da Auschwitz. Non è certamente un giorno qualunque.

Se l'inferno di quell'epoca oggi è ricordato dagli hashtag #giornatadellamemoria e #pernondimenticare, la realtà è che forse questa sarà l'ennesima celebrazione usa-e-getta volta ad acquietare il nostro senso di colpa. Non voglio dire che non sia utile e saggio ricordare: ma la nostra memoria collettiva è così labile che fra poche ore o giorni i sopravvissuti dell'inferno dei campi nazisti saranno per molti solo la cronologia del proprio profilo virtuale. Quello che mi turba è l'ipocrisia dilagante, non l'ignorante sincerità.

Per non dimenticare, sarebbe necessario rimuovere da noi il razzismo inconscio che esplode spontaneo dinanzi a chi è diverso. E smetterla di pensare, ad esempio, che la soluzione al problemi dei profughi e delle grandi migrazioni sia farli affogare nel Mar di Sicilia. O che chi ha la pelle diversa non rappresenti una risorsa ma un costo sociale.

Per non dimenticare, bisognerebbe coltivare sul serio la tolleranza nelle piccole cose quotidiane. Ad esempio, nei confronti di chi non sopportiamo e incontriamo ogni giorno, di chi legge la realtà diversamente da noi, di chi è troppo stanco per pensare e agisce solo per apatica abitudine. O di chi è semplicemente stupido.

Per non dimenticare, dovremmo iniziare a mostrare rispetto per chi ci ha preceduto. Come i nostri vecchi che rassegnati vivono abbandonati a sé e con se stessi come unici compagni, quasi come una sorta di scomoda eredità un po' kitsch di un mondo ormai perduto e d'antan, per poi rimpiangerli quando scompariranno.

Per non dimenticare, ogni tanto dovremmo saper ascoltare chi ci parla, buttando via i nostri notebook, tablet, smartphone, e tutti gli altri aggeggi che ci separano dagli altri con l'illusione di essere interconnessi. E tornare a sederci con i nostri compagni o figli o amici per cercare di capire cosa provano e perché l'uomo moderno sia vittima cronica dell'incomunicabilità.

Per non dimenticare, andrebbero aperte le nostre porte. Dovremmo aprire i nostri cuori a chi implora il nostro affetto di narcisisti super impegnati che corrono verso chissà cosa, magari imparando di nuovo a mostrare affetto ed empatia. E dovremmo aprire le nostre menti a chi vuole parlarci, anche quando dice cosa che pensiamo non ci interessino, o quando una nuova idea ci sembra troppo sbalorditiva per essere credibile.

Basta poco per non dimenticare. I tweet e i post, purtroppo, non saranno mai sufficienti.

giovedì 22 gennaio 2015

Un nuovo rinascimento culturale?

Mentre il sole freddo di Londra colpisce i vetri del palazzo al di là della strada, e mentre ascolto musica che non mi piace nell'ufficio stile ultramoderno dove passo buona metà delle mie giornate, mi vengono in mente i versi di una vecchia canzone di Juri Camisasca. La musica muore, cantava quaranta anni fa.

E oggi con essa a morire è la cultura in generale. Gli ultimi decenni sono stati attraversati da una sempre più evidente decadenza globale, ma come sempre l'Italia si è distinta. In peggio. Quella che era stata la culla della civiltà romana che aveva scritto la storia, la famosa patria di santi, poeti e navigatori (frase per inciso pronunciata da Mussolini, strani i casi della vita!) oggi si riduce a una specie di grande pozzo nero. Una cloaca che ci pone ai primi posti in Europa nelle classifiche della corruzione e dei disservizi. Per dirla in breve, Pompei crolla. E con essa il Belpaese e il suo patrimonio millenario.

Spesso mi accorgo di come ormai anche l'editoria, come la musica e le belle arti, sia stata infettata dallo stesso virus. Dopo il junk food, quel cibo spazzatura preconfezionato che costa poco e accorcia la vita, è arrivata l'epoca del junk book. Le librerie pullulano di romanzi usa e getta, scritti forse da giallisti norvegesi o con trame di complotti mondiali o a sfondo voluttuoso in varie tonalità e sfumature. Ed entrando in quegli antri meravigliosi che un tempo erano le "case del libro", come immaginavo le librerie di un tempo dove in aria si annusava l'odore della carta ingiallita e di quella nuova, della colla dei dorsi, e delle meravigliose edizioni scontate perché ormai un po' vecchiotte e adatte solo al macero che mi estasiavano, non riesco a provare più quella sensazione.

Certo, ci sono ancora autori che vanno letti e comprati. Ma sono sempre di meno, offuscati da roba commerciale che forse si presenta bene ma dai contenuti scialbi e che domani nessuno ricorderà più. L'amore per le belle cose va spegnendosi.

La domanda che mi faccio è la seguente: è possibile sperare in un nuovo rinascimento culturale? Ci sono le condizioni perché qualcosa si muova in meglio? Perché gli editori e gli autori ricomincino a costruire, a innovare certo, ma ricordando di essere solo nani sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti? Perché il libro non sia solo un prodotto commerciale ma soprattutto la rappresentazione tangibile dell'animo di chi l'ha concepito? O siamo condannati a questo arretramento continuo?

Resto senza risposte, perché non le ho. Oggi neanche il sole mi scalda. La musica, l'arte, il libro muoiono.






martedì 20 gennaio 2015

Io sto con la libertà di espressione

Con la schiena dritta come si conviene a chi non teme la conseguenza delle proprie azioni e il giudizio altrui, si consegnò dicendo: "Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione".

L'antefatto era stato tragicamente semplice: la pubblicazione di alcune lettere compromettenti di un potente politico sul giornale da lui diretto. Scelta che lo portò a una condanna contro la quale non volle appellarsi.

Era l'anno 1954, e il politico si chiamava Einaudi. La condanna, vilipendio a capo dello Stato. Il condannato si chiamava Giovannino Guareschi, e sarebbe rimasto in carcere per 409 lunghissimi giorni. Nessuno allora poté lanciare lo hashtag #iostoconguareschi.

Senza che il tempo e le stagioni ci abbiano insegnato nulla, sessantuno anni dopo un altro uomo con la schiena dritta si scontra con forze più grandi in una Italia dove è vietato dire come la si pensa, specialmente su certi argomenti considerati tabù. E senza che si provi imbarazzo per questo.

Nel suo ultimo libro, La parola contraria, lui scrive delle frasi grevi e attuali che dovrebbero far riflettere:
Uno scrittore ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più che la promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria.
Lo scrittore si chiama Erri De Luca. Io sto con la libertà di espressione. Io sto con Erri.

#iostoconerri #iostoconguareschi

Per saperne di più
Blog Iostoconerri.net
La parola contraria, di Erri De Luca

sabato 13 dicembre 2014

Camilleri, Pirandello e il Nobel

Esattamente ottanta anni fa, cioè il 10 dicembre 1934 Luigi Pirandello si presenta a Stoccolma per ritirare il premio Nobel per la letteratura, forse il maggiore riconoscimento per uno scrittore. L'Italia è fascista e forse nel suo momento più di prestigio internazionale, quando gli inglesi corteggiavano Mussolini e Hitler lo prendeva a modello. E il grande scrittore agrigentino si era iscritto al Partito Nazionale Fascista dieci anni prima, nel settembre 1924, per poi essere fra i primi accademici della Reale Accademia d'Italia nel 1929.

Però, quel dicembre del 1934 lo scrittore fa una cosa strana: al ritiro del premio Nobel, decide di non pronunciare alcun discorso. Perché? Secondo Andrea Camilleri in un'intervista di Felice Cavallaro, Pirandello preferì tacere per evitare di fare riferimento al fascismo e a Mussolini, dimostrando di essere in realtà lontano dal regime.

Pirandello fu realmente fascista? O la sua adesione fu semplicemente una scelta pragmatica che gli permettesse di raggiungere i fini dell'Arte? L'interessante intervista di Camilleri ci permette di ritornare indietro nel tempo e capire meglio una pagina importante della storia letteraria d'Italia.

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