martedì 14 luglio 2009

Pirandello e sicilianità


Luigi Pirandello, nel suo famoso Discorso di Catania il 2 settembre 1920 per gli ottant'anni di Giovanni Verga, parlando dei siciliani a un certo punto disse:

I siciliani, quasi tutti, hanno un'istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chira di sole, e più si chiudono in sé, perché di quest'aperto, che da ogni part è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da sé, e da sé si goda - ma appena, se l'ha - la sua poca gioja; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato

La condizione di essere siciliani, anzi, la nostra "sicilianità", ha costituito per secoli un baluardo contro le angherie della sorte e della storia. Abbiamo costruito una difesa emotiva nella nostra solitudine? Spesso si sente dire che i siciliani si offendono facilmente, che hanno un brutto carattere. Che vivono i loro rapporti con altri in maniera barocca e ampollosa, non accettando quel tipo di schiettezza tipica di altre zone d'Italia. Che vivono del complesso di rassegnazione di cui Tomasi di Lampedusa parla nel Gattopardo, inabili a reagire. Che si sanno adattare come un'ameba, o forse qualcuno più malignamente direbbe come un tumore, alle vicissitudini della propria terra.

Può darsi, ma la spiegazione è più profonda. La condizione fisica di "isola" ha portato noi siciliani alla condizione mentale e spirituali di sentirci "isola", e a considerare la critica altrui, anche se benintenzionata e specialmente se "forestiera", come un attacco al nostro inviolabile spazio vitale, un'indebita intromissione nel quadrato che ci siamo ritagliati, una violazione del nostro focolare e del nostro animo.

E gli scrittori siciliani sono vittima spesso di una compulsione interiore a parlare sempre di sé, della propria terra, delle proprie persone, succubi della propria sicilianità. Scrive Malatesta, un non siciliano che scrive presuntuosamente e amabilmente di sicilani:

Nessun altro popolo è ossessionato così tanto da sé stesso da dimenticare tutto il resto. Uno scrittore lombardo non parla sempre della Lombardia, e uno scrittore emiliano evade qualche volta dalla sua regione. Gli scrittori siciliani continuano a rimestare in eterno nella loro terra, perché non sanno chi sono e cercano una risposta. (Stefano Malatesta, "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani")

La sicilianità come una forma di "ossessione"? Una idea fissa che condiziona l'artista che nasce e cresce in questa terra per il resto della vita, anche se spesa altrove? Può darsi. Siciliani si è marchiati alla nascita, non si diventa.

Globalizzazione
La globalizzazione ha sfumato del tutto questa impostazione isolana dei rapporti con gli altri. Purtroppo, direi. La generazione odierna si è imbastardita, avendo diluito la propria diversità millenaria con il gusto di compiacere gli altri. Ma ancora la sicilianità tracima dagli argini tracciati con vigore dal trend che appiattisce le differenze e incanala gli animi verso una ortogonale simmetria dei comportamenti sociali.

I vecchi rimpiangono quel canone di abitudini e quella vezzosità di altri tempi, forse sopravvissuta in qualche arcaica "isola" culturale all'interno dell'isola, ma ormai rifiutata da molti perché sinonimo di vetustità. Io invece rimpiango la malattia terminale della sicilianità, un valore aggiunto che è stato deprezzato, ma che forse sopravvivrà come una pianta di capperi attaccata vigorosamente al suo nudo e assolato muro, trasformando la calura che fa inaridire tutto in nutrimento e linfa per una rinascita della propria vocazione storica.

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