giovedì 19 aprile 2007

Quer pasticciaccio brutto ...

Avete presente Carlo Emilio Gadda? L'autore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana? Si dice abbia trascorso gli ultimi 18 anni di vita relegato nel suo appartamento romano, vittima di una forte nevrosi. Il Pasticciaccio fu composto nel 1946-7, ma fu nel 1957 che ricevette l'edizione definitiva, quando Gadda aveva già lasciato la RAI per rinchiudersi in casa. Eppure riuscì a costruire un ambiente in cui far vivere il personaggio del commissario Ciccio Ingravallo, l'eroe o anti-eroe di turno, di sapore quasi profetico.

La trama si svolge nella Roma fascista del 1927, esattamente ottant'anni fa, in un groviglio avvillupato di voci, dialetti, odori, masse, rumori, una matassa che non si riesce a dipanare (il "pasticciaccio" del titolo), e che non ha né capo né coda. Così come non ha soluzione l'omicidio della povera Liliana Balducci: il lettore giunge al termine del racconto nella speranza di capirci qualcosa, per scoprire che non si capirà mai chi è l'assassino e perché l'abbia fatto. Esilaranti le descrizioni del Duce, "Testa di Morto in stiffelius" o "Truce", gaudente l'orgia di dialetti molisano, romano, napoletano, romano. Gadda fu un grande sperimentatore, dobbiamo ammetterlo.

Ho letto un articolo su The Edinburgh Journal of Gadda Studies, un giornale elettronico dedicato al grande scrittore. Si ragiona sul finale anomalo del romanzo, e sulla frase dell'Assuntina che grida nell'ultima pagina del libro "No, nun so' stata io!", a scagionarsi. Si dibatte sul perché Gadda si sia intestardito nel non chiudere il racconto indicando chi fosse il colpevole. Lui stesso disse:


Il pasticciaccio l’ho troncato apposta a metà perché il «giallo» non deve essere trascinato come certi gialli artificiali che vengono portati avanti fino alla nausea e finiscono per stancare la mente del lettore. Ma io lo considero finito. […] letterariamente concluso. Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta.


Profetico? Direi di sì. Il Pasticciaccio è quasi l'archetipo dell'Italia odierna: stragi di stato mai risolte, un aereo abbattutto ad Ustica non si capisce da chi (saranno stati gli UFO??), delitti senza soluzione certa, di ogni specie, sesso ed età. Una classe politica che vive di "groppi", come scrisse Gadda, dove misteriosi legami costruiscono tentacolari canali che sottoterra stabiliscono ponti fra la Prima Repubblica e quella attuale. Accenti diversi convivono in un Parlamento più sperimentalista del romanzo in questione. Chi è il colpevole? Forse lo capisce solo il poliziotto, come diceva Gadda, forse nessuno. In ogni caso, un coro di voci all'unisono urla "No, nun so' stato io!". Siamo cambiati poco in ottant'anni, dobbiamo ammetterlo.

Don Ciccio cercava di sopravvivere ai nodi della sua epoca usando il ragionamento e la metafisica come chiave di lettura della vita. Ma la scalfiva appena. Ho voluto provare la stessa cosa, ma ahimé, l'esperimento non è riuscito neanche a me. Purtroppo, non c'è soluzione all'impasticciato rebus in cui viviamo.


Link: Carlo Emilio Gadda - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana - 2007, Garzanti Libri

mercoledì 18 aprile 2007

L'amico di Galileo


Isaia Iannaccone, chimico e sinologo, ha pubblicato il suo primo romanzo, L'amico di Galileo. Lettura piacevole e scorrevole ambientata fra l'Europa, l'India cristiana, Macao e la Cina. In breve, si narra di Terrentius (o Schark), medico anatomista del 600, che lotta contro il tribunale dell'Inquisizione, in perenne opposizione a qualunque teoria metta in discussione dottrine inamovibili della Chiesa e di Aristotele. Terrentius, amico di Galileo (da cui il titolo) e socio dell'Accademia dei Lincei, viene a sapere che in Cina sono i saggi a governare, e che l'Imperatore ha grande rispetto per la scienza. Perciò dedica tutto se stesso all'impresa di andarci, e con questo fine in mente, si fa gesuita, impara il cinese e la farmacopea dell'Oriente, e finalmente riesce a raggiungere la missione fondata da Matteo Ricci. Ma anche lì, nemici invisibili cercano di fermarlo: un assassino nascosto fra le pagine del libro rivelerà la sua identità solo alla fine del romanzo. Buon abbinamento fra romanzo storico, giallo, qualche scena sensuale, colpi di scena, forse frutto anche dei buoni consigli dell'editrice Françoise Roth, esperta di romanzi storici e prodiga di suggerimenti a Iannaccone, come lui stesso ammette nella postfazione al libro.

Questo libro mi ha ricordato tante cose. Innanzitutto mi è sembrato di rivedere un Baudolino in versione ridotta, ma senza i colti intarsi verbali e certe scene poetiche di quest'ultimo racconto. Devo però ammettere che le discussioni fra Terrentius e l'Inquisizione nelle prime pagine del libro in relazione alla questione se lui fosse o meno un ematita, o i dialoghi accesi fra gesuiti conservatori e progressisti mi siano piaciuti parecchio. Come Baudolino, anche Terrentius ha una terra lontana e favolosa da raggiungere: la sua terra del Prete Giovanni è la Cina, dove finalmente non avrà (o spera di non avere) il fiato sul collo dai domenicani preoccupati solo di difendere la fede. Questo Baudolino del diciassettesimo secolo affronta il mare, le febbri, nemici invisibili, ma ha saldamente i piedi per terra. Baudolino ha il pregio di essere un romanzo storico per i colti, Iannaccone invece quello di esserlo per il grande pubblico.

Affascinante anche il richiamo all'idea del paese di Utopia, benché mai menzionata esplicitamente. La terra dell'Imperatore è mitizzata, per il grande rispetto di cui godrebbero i saggi e gli scienziati. Si ode una eco lontana di tante idee, dalla Repubblica di Platone a Gioacchino da Fiore. Secondo la sua escatologia, chiamata anche "filosofia delle tre età" (Drei-Reiche-Lehre), ci sarebbe un'equivalenza fra le tre persone della Trinità e la storia, divisa in tre stati o epoche. Il primo status era l'Età del Padre, che corrispondeva al Vecchio Testamento ed era caratterizzata dalla legge mosaica. Il secondo status, cioè l'Età del Figlio, era rappresentato dal Nuovo Testamento e dalla grazia di Dio. Il terzo status era l'Età dello Spirito Santo, epoca futura in cui l'umanità avrebbe raggiunto la piena libertà cristiana e la perfezione. Nella sua Expositio in Apocalypsim vedeva la chiave del successo della nuova età nel governo monastico, un "ordine di uomini giusti", che avrebbe condotto a una chiesa e umanità rinnovata. Questo concetto è presente nell'Utopia di Tommaso Moro e in Tommaso Campanella, con La città del sole. L'ideale di Terrentius è quasi gioachimita: una terra e una età in cui i saggi amministrano gli uomini. Il trionfo dei colti per il bene dell'uomo.

Riflettere sul ruolo degli uomini di cultura e di scienza è importante. Spesso malvisti dalla società in cui viviamo, forse perché troppo progressisti o poco attenti ai desideri dei media, o forse perché sentiti troppo "lontani". Certo, il Grande Fratello (non quello di Orwell, che se cercato su Google è all'undicesimo posto, ovviamente dopo quello della televisione) è più interessante e più facile da seguire, e richiede meno concentrazione. Sarà più complicato avere a che fare con chi vive le sue giornate fra tomi, libroni, e che si diverte di più leggendo che facendo zapping. Il popolo vuole godere, e chi detiene il potere politico, religioso e mediatico sa come darglielo. Giovenale griderebbe: "Panem et circenses!". Il terzo incomodo restano gli uomini di cultura, sentiti estranei all'epoca di Gioacchino da Fiore, nel 600 della Santa Inquisizione in cui è ambientata la storia di Terrentius, ancora oggi. Siete elementi di discontinuità, cari lettori, smettetela di perdere tempo qui, in questo blog.

Pazienza, la prossima volta invece di spendere 18,50 euro per l'ultimo romanzo di Iannaccone, aggiungendo solo 50 centesimi potrò, grazie a Mediaset Premium, comprarmi la finestra sulla "Casa" 24 ore su 24. Un mese a fare lo sbircione valgono più della storia immaginaria di un gesuita secchione e rompiballe, non credete?


Leggi online il primo capitolo
Link: Isaia Iannaccone - L'amico di Galileo - 2006, Sonzogno Editore

Codicedavinciani unitevi!

Quando, poco meno di due anni fa, nella libreria che frequento furono create nuove sezioni dedicate alla massoneria, ai templari e al Santo Graal, restai un po' perplesso. A mala pena c'è uno scaffale dedicato alla religione (dove ecumenicamente convivono testi di Papa Ratzinger, il Corano e Sri Baba), e appena due alla filosofia antica e moderna. Ma per Il Codice da Vinci di Dan Brown e tutta la letteratura sorta attorno, tre interi scaffali, oltre alle esposizioni di edizioni pregiate, con le foto, a caratteri grandi e forse fregiate in oro zecchino!

Che gran schiamazzo, per questo Codice! Bel romanzo, trama affascinante, colpi di scena: ma Angeli e Demoni dello stesso autore sarebbe, secondo me, molto più interessante, soprattutto nel finale. Un successo editoriale, non c'è dubbio, e se questo ha accostato alcuni al mondo della lettura, che ben venga.

Ma è possibile che ci siano tanti che abbiano sposato a occhi chiusi la filosofia del vox populi, vox dei, pensado che Brown scriva di fatti storici? La mia perplessità non nasce dal temere di discutere quello in cui crediamo, ma dalla incredibile idiozia che sta alla base del diventare seguaci di una storia di fantasia, senza il minimo senso critico.

Mi è venuto in mente quello che Umberto Eco ha scritto nel suo A passo di gambero (pagg. 271-2):

Credere a Dan Brown
Il Codice da Vinci è un romanzo, e come tale avrebbe il diritto di inventare quello che vuole. Oltretutto è scritto con abilità e lo si legge d'un fiato. Né è grave che l'autore all'inizio ci dica che quello che racconta è verità storica. ... Il guaio comincia da quando ci si accorge che moltissimi lettori occasionali hanno creduto davvero a questa affermazione, così come nel teatro dei pupi gli spettatori insultavano Gano di Maganza.
...
Perché, anche a confutarlo, Il Codice si autoriproduce? Perché la gente è assetata di misteri (e di complotti) e basta che le offri la possibilità di pensarne uno in più (e persino nel momento in cui le dici che era l'invenzione di alcuni furbacchioni) ed ecco che tutti cominciano a crederci.

Siamo liberi di credere in quello che vogliamo, come propone lo stesso Eco, ai templari, nel Trismegisto e nel Terzo Segreto. Ma prima di seguire la corrente, una seria analisi dei pressuposti da cui parte Il Codice ci costringerebbe quanto meno a documentarci.

E così decisi di fare alcuni anni fa. Prima di leggere il libro di Dan Brown, di cui avevo sentito tanto parlare, decisi di comprare Il Santo Graal di M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln, titolo originale The Holy Blood and The Holy Grail (1982). La Mondadori, intuito il business che Il Codice stava producendo, decise nel 2005 di ripubblicare questo libro in edizione economica a 5 euro, la cui prima edizione era stata del 1982. Sulla copertina c'è scritto in alto: "Il libro che ha ispirato il Codice da Vinci". Eccoli là, anche loro furbastri, a cavalcare la corrente. Ma d'altronde, direte, è il loro lavoro ...

Praticamente, leggere Il Santo Graal fa intuire a cosa si sia ispirato Dan Brown. Il libro approfondisce argomenti come Rennes-le-Château, i catari, i templari, i re merovingi taumaturghi, il matrimonio fra Gesù e Maria Maddalena, il Graal, i Gran Maestri del Priorato di Sion, i discendenti odierni (i Gisors, i Payen, i Sinclair, i Plantard ...), ecc.. Una sorta di trattato sulla "catena di misteri lunga duemila anni" (sempre dalla copertina dell'edizione Mondadori).

Baigent e Leigh, due degli autori, hanno capito che Brown aveva sfogliato il loro testo, e perciò hanno intentato una causa per plagio, purtroppo perdendola (avrei voluto capire cosa sarebbe accaduto se l'avessero vinta!). Brown, commentando la vittoria, ha detto:

"Il verdetto mostra che la causa non aveva merito. Sono ancora sbalordito dal fatto che questi due autori abbiano voluto intentare questa azione" (fonte: La Repubblica)

All'inizio del procedimento penale, sempre lo stesso Brown si era difeso con le parole: "Si tratta di fatti storici". Come per dire: sulla storia non c'è il copyright di nessuno. Su questo siamo d'accordo, se io scrivo della vita di Pirandello (così come Camilleri ha fatto, romanzandola, nella sua Biografia del figlio cambiato), sicuramente non ho plagiato Gaspare Giudice, la cui opera bibiografica sullo scrittore girgentano è fondamentale. Brown avrebbe ragione, se si parlasse di Storia (quella con la "S" maiuscola).

Ma dopo aver letto il libro di Baigent & co., ebbi fra le mani il tanto pubblicizzato Codice. Non sono il giudice della causa di cui sopra, non sono un esperto di plagi, ma da lettore accanito ho avuto anche io la fortissima sensazione che Brown abbia attinto a grandi mani dal testo del 1982. Praticamente, è stata la sua Bibbia.

Oggi, ai "codicedavinciani" convinti (permettemi il neologismo) consiglio vivamente di leggere Il Santo Graal. Quanto meno si faranno la convinzione personale che l'approccio di Brown era da veri studiosi, che esistono fonti reali alla base della loro nuova fede, e potranno tenere il testo in questione sul comodino per la pronta consultazione e le orazioni prima di dormire.

Se invece si volesse fare uno studio serio delle premesse da cui parte Il Codice, consiglierei La verità sul Codice da Vinci di Bart D. Ehrman (che è davvero uno storico). Benché non concordi con tutto quello che Ehrman dice, mi sembra più serio, meno pretenzioso e più scientifico. Tra l'altro, la Mondadori ne ha fatto un'edizione economica a 5 euro (come quella del testo di Baigent, Leigh e Lincoln), potrete accostarle insieme nella vostra biblioteca salvando l'estetica.

C'è un solo problema: Ehrman mette in dubbio la storicità di quello che Brown vorrebbe farci credere. Ahi ahi, se il mio libraio lo venisse a sapere, perderebbe tre scaffali di libri "che vendono".


Link: Bart Ehrman - La verità sul Codice da Vinci - 2006, Mondadori, "I Miti"

Gogol' e la mantella

Ho letto una edizione diversa del famoso racconto di Nikolaj Gogol'. Solitamente, il titolo è tradotto con "Il cappotto", ma una bella versione di Nicoletta Marcialis per conto della Salerna Editrice (1991, collana Minima, n° 19) precisa che sarebbe più corretto renderlo "La mantella".

Il libro è corredato di una buona introduzione e di una interessantissima appendice a cura della traduttrice, che chiarisce bene alcuni sottintesi dell'ambiente in cui si svolgono in fatti. In relazione all'indumento dello sfortunato Akakij, è spiegato che si tratta di uno šinel, una specie di pesante soprabito a fasce lunghe, quasi sempre imbottito di pelliccia e foderato, e dotato di cappuccio. All'epoca dello zar Nicola I (quando il racconto è ambientato) esistevano due tipi di šinel, una civile, costoso appannaggio delle classi privilegiate, e una militare. Più che un cappotto, si trattava di qualcosa paragonabile a una mantella. Akakij si fa realizzare il primo tipo di šinel, violando in un certo qual modo il suo status sociale.

Situazione pre-fantozziana: come avrebbero potuto aiutare un impiegatuccio che si voleva vestire da gran signore? Akakij muore desolato, senza essere riuscito a godere di quel capo di abbigliamento, tanto agognato e per ottenere il quale aveva fatto grandi sacrifici. L'abito, anche allora, faceva il monaco.


Link: Nikolaj Gogol' - La Mantella - 1991, Salerno Editrice, Collana "Minima" - n° 19

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