Sono stato ad uno spettacolo di Renato Zero. Nel farlo ho superato alcune barriere personali. Non mi riferisco a quelle relative all’orientamento sessuale dell’artista, di cui poco mi importa e credo poco importi a tutti quelli che lo seguono, ma piuttosto quelle relative alla validità della proposta artistica del famoso “cantattore”.
Avendo superato da un bel po’ i quarant’anni e avvicinandomi ai cinquanta sono vissuto in quel periodo in cui sono cresciuti e si sono affermati diversi mostri sacri della musica italiana. La maggior parte di loro suscita il mio rispetto e la mia ammirazione. Riuscire a rimanere nella breccia per quaranta e più anni e riuscire a riempire ancora un palazzetto dello sport (stendiamo un velo pietoso sulla vendita dei CD che ormai fa parte dell’archeologia della musica) ha del miracoloso. Alcuni di loro li ascolto e li vedo con piacere. Non tanto per la proposta musicale (praticamente tutti ripropongono in maniera ossessiva ed auto celebrativa se stessi). Né per la capacità di dare spettacolo. Al di la della indubbia professionalità di diversi dei mostri sacri della musica italiana, è imbarazzante vedere persone di oltre sessant’anni fare movimenti goffi su un palco senza riuscire neanche lontanamente a suscitare le emozioni che suscitavano nel pubblico al culmine della loro carriera artistica. Ma li vedo con piacere perché rappresentano una sorta di anello di congiunzione con la mia adolescenza e riescono ad anestetizzare la consapevolezza di star invecchiando. Per allargare il discorso, per la stessa ragione ogni tanto compro un comic americano (Marvel o Dc). Non riesco più a sognare di emulare il mio super-eroe preferito. Ma ricordo che da ragazzo lo facevo e mi fa stare bene.
Ritornando a Renato Zero mi sono lasciato convincere e ho acquistato due biglietti, uno per me e uno per mia moglie. Sono entrato nel palazzetto dello sport che ospitava lo spettacolo pieno di timori. Ho cominciato a chiedermi: a che punto dello spettacolo mi addormenterò?
Devo anche premettere che neppure da ragazzo Renato Zero mi riscaldava più di tanto. La sua ostentata (e finta, a quanto lui stesso dichiara) omosessualità mi dava fastidio. Come pure mi infastidiva il contenuto di molti suoi brani provocatori, per l’epoca, al limite del cattivo gusto. Certo paragonate con certe brutture proposte dalla televisione attuale (i vari Amici e X-Factor), tutti i cantautori e gruppi italiani degli anni settanta sembrano dei giganti della musica e dello spettacolo. E Renato Zero giganteggia sicuramente sui vari prodotti usa e getta delle reti Rai e Mediaset.
Pertanto con uno spirito critico al limite del dire “mi alzo e me ne vado” ho preso il mio posto e ho osservato con attenzione ogni cosa. Il suo pubblico, composto per lo più di persone della mia età, il palco, il sipario, le luci e alla fine lui. Il sipario si è alzato e lui si è fatto avanti cantando uno dei suoi pezzi storici e maggiormente autobiografici, “La favola mia”, preceduto dalla voce di un bambino narrante che celebrava la capacità di Renato di aver realizzato i suoi obbiettivi, contro tutto e tutti. Mi sono trovato di fronte ad un gigante dello spettacolo. Come tutti i grandi della musica italiana Zero è stato auto-celebrativo e auto referenziale, ma di fronte alla manna per gli occhi e per le orecchie che ha offerto gli si perdona tutto, anche la retorica. Ha saputo condire la sua nuova proposta, il suo ultimo lavoro “Amo”, con uno spettacolo veramente di alto livello.
A differenza di altri suoi colleghi, Zero non indulge molto nella riproposizione dei suoi vecchi successi. Né dedica, come fanno la maggior parte delle vecchie glorie, l’ultima parte dello spettacolo alle vecchie hit. Pertanto mancano dalla scaletta vecchi successi come “Triangolo”, “Mi vendo” o “Spalle al muro”. Ma alcuni capisaldi del suo repertorio vengono sparsi qua e la durante lo spettacolo insieme alle canzoni del suo ultimo lavoro. E mi sono ritrovato a cantare insieme ai “sorcini” (così chiama il suo pubblico) brani come “Madame” o “Baratto”. Mi sono divertito da matti nel vederlo fare la “checca”, prendendo in giro i cosiddetti perbenisti. Ho pianto per Lucio Dalla, da lui ricordato in uno struggente brano dal titolo “Lu”. E ho applaudito, fino a spellarmi le mani quando ha omaggiato il grande Giancarlo Bigazzi, morto di recente, con il brano “Un’apertura d’ali”. E nell’ultimo brano, inno alla vita e alla positività, lo struggente “Il Carrozzone”, eseguito in maniera magistrale dal maestro Renato Serio, ho colto la vera essenza di Renato Zero. Un grande professionista, che ha creduto ad un sogno, il suo, ha lottato per realizzarlo, e lo ha fatto condividere a milioni di persone.
E in un momento della nostra storia in cui manca completamente un sogno e siamo in mano a ciarlatani e incompetenti, posso solo dire grazie a Renato Zero per avermi fatto sognare che la vita non è solo “PIL” e “spread” ma anche valori e che si può ancora sperare che il peggio sia passato.
Grazie di cuore, Renato.