martedì 31 dicembre 2013

Far finta di essere sani

Prendete un uomo già di una certa età, acciaccato dalla vita e stanco, che invece di andarsene in pensione è costretto a fare le ore piccole per vendere al dettaglio della merce da quattro soldi. Prendete una ragazzina orfana di una madre che non l'aveva voluta, che ogni sera si deve coprire con un scialle consunto per portare un po' di conforto al nonno. Prendete infine una donna amareggiata che, ammaliata dall'amore di un latin lover che si era illusa di poter sposare, si ritrova abbandonata per una donnina che canta in un caffè, senza più una carriera e con una neonata da crescere. Prendete infine il traditore, ucciso per vendetta dall'amante tradita, mentre allegramente passeggia con la sua nuova conquista.

Sembra quasi di leggere la cronaca di una giornata qualunque, di persone che vivono in una qualsiasi città del cosiddetto Occidente. Invece, si tratta di una novella scritta ben 108 anni, nel 1905, che ci conferma come il dramma della solitudine sia costantemente presente nelle nostre esistenze, nonostante i grandi cambiamenti di costume e abitudini avvenuti in oltre un secolo.

Si tratta di uno dei 241 racconti che formano la mirabolante raccolta conosciuta come "Novelle per un anno", che nell'idea iniziale del suo autore, Luigi Pirandello, doveva essere composta da 24 raccolte per un totale di 365 novelle, giusto una per ogni giorno dell'anno. La novella di cui stiamo parlando è "Lo scaldino", pubblicata nel 1905 sul Corriere della Sera. Nel 1920, il regista romano Augusto Genina la usò come soggetto per un film muto, proprio negli anni in cui lo scrittore agrigentino scopriva la "settima arte".

I protagonisti del racconto sono dei poveracci che la vita costringe alla solitudine. Papa-re, un vecchio giornalaio e rivenditore di sigarette che ogni sera si rinchiude in un freddo chiosco attendendo che la giovane nipote gli porti uno scaldino di terracotta riempito di carbone, vive nel ricordo di Roma governata dallo Stato della Chiesa, da cui verosimilmente il nome, e non si accorge che il mondo è cambiato quando strillona per strada la notizia della rivoluzione in Russia (quella del 1905, a cui seguirà la grande rivoluzione del 1917 e l'avvento del comunismo). La nipote è quasi un'ombra, che vestita di cenci appare puntualmente ogni sera, ma che, forse per la troppa stanchezza, fa cadere malauguratamente quel vaso di coccio che il nonno aspetta con bramosia, rompendolo in mille pezzi. Infine, Rosalba, la donna ferita dal tradimento che sperava in un ruolo di moglie, e che a motivo del suo amore cieco era stata disposta a prendere le botte e subire la fame. Infine, c'è la neonata, la figlia che Rosalba non ha la forza di crescere e che abbandonerà nelle mani generose di Papa-re.

Sono quattro vittime, accomunate da una esistenza infelice: un vecchio solo, un'orfana, una donna tradita, una bambina non voluta. Eppure, il colpo di scena avviene alla fine, come ci saremmo aspettati: Rosalba si rifugia nel chiosco di Papa-re, e quando questi, riscaldato dal calore della neonata che tiene sulle gambe, si assopisce, lei si apposta sulla porta pronta a sparare Cesare il milanese, l'uomo che l'ha sedotta e abbandonata.

Scoppia il panico! Tutti accorrono, per portare l'uomo ferito in ospedale. Ne parleranno ancora quella sera, e la prospettiva si ribalta: adesso la vittima è lui, il milanese, oscurando con la sua figura le esistenze gracili degli altri quattro, relegati infine a semplici figuranti nella commedia della vita.

Pirandello, con l'abilità che lo contraddistingue, riusce a centrare un punto focale tristemente attuale: i nostri drammi personali passano sempre in secondo piano. I giornali sono ricchi di dettagli che riguardano le vicende più o meno onorevoli di personaggi pubblici, e una loro malattia, incidente o disgrazia diventa l'argomento più importante, facendoci quasi imbarazzare quando, tra le pareti delle nostre case, ci confrontiamo con i nostri dolori personali.

Leggendo la novella "Lo scaldino" sembra quasi di passeggiare virtualmente in via Piccolomini, a Roma, osservando quel famoso effetto ottico che fa sembrare la cupola di San Pietro sempre più grande, man mano che ci si allontana. Forse dipenderà dalla leggera inclinazione della strada, che è un falsopiano, o dalla disposizione degli edifici: sta di fatto che la prospettiva è invertita. E così, più Papa-re e gli altri personaggi della novella tentano di ritagliarsi un proprio spazio allontanandosi idealmente dal caffè e dai suoi avventori, più riscontrano di essere solo marionette dello spettacolo il cui vero protagonista è lui, Cesare, il belloccio ferito quasi a morte, innamorato della cantante Mignon.

Tutti fingono, in realtà. Cesare il milanese finge il suo ruolo di martire sull'altare della libertà da ogni legame e condizionamento, mentre Rosalba finge di essere madre mentre rimpiange il suo vecchio impiego di canzonettista. Anche la nipote finge di essere quello che non è, ovvero una ragazza a servizio di un vecchio stanco. E Papa-re? Finge. Tutti "fanno finta di essere sani", come direbbe Gaber, nascondendo le proprie miserie dietro una vita all'apparenza normale.

Il racconto si conclude così:
Accorse di furia una vettura, che, poco dopo, scappò via di galoppo, verso l'ospedale di Sant'Antonio. E un groviglio di gente furibonda passò vociando davanti al chiosco e si allontanò verso Piazza delle Terme. Altra gente però era rimasta lì, sul posto, a commentare animatamente il fatto, e Papa-re, con gli orecchi tesi, non si moveva, temendo che la bimba mettesse qualche strillo. Poco dopo, uno dei camerieri del caffè venne a comperare un sigaro al chiosco.
 - Eh, Papa-re, hai visto che straccio di tragedia?
 - Ho... inteso... - balbettò.
 - E non ti sei mosso? - esclamò ridendo il cameriere.
 - Sempre col tuo scaldino, eh? Col mio scaldino, già... - disse Papa-re, curvo, aprendo la bocca sdentata a uno squallido sorriso.
La bocca sdentata del povero vecchio nasconde il suo imbarazzo, e il suo terrore che scoprano che al posto dello scaldino c'è adesso una neonata che, beatamente, dorme sulle sue ginocchia. Si legge, fra le righe della novella, quello che il Padre dirà anni dopo nei "Sei personaggi in cerca d'autore" (1920) quando, descrivendo al Capocomico l'orrore provato nel trovare la Figliastra dove non doveva essere, e dove lui era andato a cercare amore, dice:
Signore, ciascuno - fuori, davanti agli altri - è vestito di dignità: ma dentro di sé sa bene tutto ciò che nell'intimità con se stesso si passa, d'inconfessabile.
Anche Papa-re freme. Non prova orrore per sé, ma di quello che potrebbero dire di lui, o meglio, scoprire in lui. Continua a fingere disinteresse, ed è disposto a subire lo scherno del cameriere che va a comprare da fumare, pur di nascondere quello che è veramente. Non una cattiva persona, né uno con gli scheletri nell'armadio, ma solo un povero e buon vecchio. Rosalba gli ha affidato la bimba non voluta perché, nella sua compartecipazione di sentimenti, è stata l'unica a cogliere in Papa-re un tratto di umanità che né lei, né Cesare, né la nipotina hanno, quest'ultima sembrando quasi un automa, un orologio svizzero privo di emozioni che fa semplicemente il suo dovere.

Giorgio Gaber, quasi settant'anni dopo la scrittura della novella, canterà ancora quello sforzo collettivo di apparire normali con i versi della sua "Far finta di essere sani":
Liberi, sentirsi liberi
forse per un attimo è possibile
ma che senso ha se è cosciente in me
la misura della mia inutilità.

Per ora rimando il suicidio
e faccio un gruppo di studio
le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani
far finta di essere sani.
Gramsci e la lotte di classe, per sembrare normali. Per dare un senso alla propria "inutilità", come canta Gaber. Lo scaldino, quell'umile oggetto di terracotta, si riduce in cocci, quasi a simbolo del contrasto tra la vita apparente e la voglia di "essere sani", e la realtà, dove gli altri leggono in noi quello che non pensiamo di essere, e dove viviamo nella paura recondita di sembrare diversi.

Viene fuori quello che il Padre dirà anni dopo nei Sei personaggi, concetto che poi sarà ripreso in Uno, nessuno e centomila, e che invito a riascoltare nella indimenticabile interpretazione di Romolo Valli, del 1965:

Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser sempre "uno per tutti", e sempre "quest'uno" che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n'accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell'atto!
Bibliografia
  • Gaber Giorgio, Far finta di essere sani (1974)
  • Pirandello Luigi, Lo scaldino (1905)
  • Pirandello Luigi, Sei personaggi in cerca d'autore (1921)

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