lunedì 14 gennaio 2013

Le vite degli altri

Le vite degli altri sono e resteranno per noi un mistero insondabile. Nonostante lo sforzo immane delle filosofie antiche e recenti e della psicologia moderna di interpretare il comportamento umano e soprattutto di prevederne l'esito, la realtà è che non sappiamo quello che gli altri pensano. Incluso chi ci è più vicino e che conosciamo bene, che talvolta sfugge da quel senso di complicità e affetto che ci permette di leggere fra le righe. Sarà mai possibile perciò intendere a fondo il motivo vero e recondito delle scelte altrui?

Il morboso interesse per quello che avviene quando la persona che abbiamo incontrato o conosciamo gira l'angolo, o si rifugia a casa sua, o va via dall'appuntamento che avevamo con lei, se non controllato, può generare le deviazioni che sono state tipiche di tanti regimi (e che purtroppo lo sono ancora), ben illustrate dal film Le vite degli altri di von Donnesmarck. Lì, un capitano della Stasi il cui lavoro è ascoltare quello che gli altri dicono e indagare su quello che fanno, a un certo punto della sua vita ha un ripensamento. Il dubbio nasce dalla lettura di un volume di Brecht, ma il punto di svolta è leggere l'inchiesta scritta dall'uomo che sta spiando, lo scrittore Dreyman. E mettendo in discussione la sua carriera e la sua sicurezza personale (non dimentichiamoci di essere nella Germania Est comunista), il capitano Wiesler fa la cosa che reputa giusta. E smette di occuparsi di spiare gli altri.

Ma fa bene Wiesler? Ovviamente, il discorso in questione non è la speculazione fatta in chiave politica di chi vorrebbe impedire le intercettazioni, strumento indispensabile per perseguire i molti delinquenti spesso con colletto bianco della decadente nazione che è diventata l'Italia. Quando il lungometraggio fu trasmesso il 9 febbraio 2011 da Raidue, l'intento di alcuni fu subito di usare il film per discutere del ruolo dei giudici, paragonati a spioni della DDR, che invece fanno solo il loro lavoro a repentaglio della propria vita. Eppure, la domanda resta: Wiesler ha fatto bene?

Amos Oz, Scene dalla vita di un villaggioAmos Oz, nel suo Scene dalla vita di un villaggio, narra in otto racconti brevi ma intrecciati fra di loro di un piccolo villaggio, Tel Ilan, dove accadono dei fatti misteriosi. Oz si intrufola nella vita degli altri, la segue brevemente quasi con gusto fotografico, e poi improvvisamente sposta il suo obiettivo altrove. Non sapremo mai se Benni Avni resterà seduto sulla panchina ad aspettare la moglie che l'ha lasciato, o se tornerà a casa sua. O che fine ha fatto il nipote della dottoressa Ghili Steiner, che lo aspettava con ansia ricordando i momenti trascorsi insieme quando lui era piccolo. O chi scava sotto casa Kedem, udito solo dal vecchio onorevole in pensione Pesach, e dallo strano inquilino, uno studente arabo, ma non dalla figlia di Pesach, Rachel Franco. Lo scrittore israeliano costruisce un micromondo molto simile a quello in cui tutti viviamo, ignari della vita del nostro vicino, del postino, del commesso o del poliziotto che ci ha sorpassato, ma un po' curiosi e interessati a capire le dinamiche altrui.

Fa bene Oz ad interessarsi delle vite degli altri? Fa male Wiesler a smettere di farlo? La nostra natura umana non potrà mai prescindere da quell'innata curiosità per chi ci abita attorno. Non siamo né diverremo mai isole. Il segreto sta nell'aggraziato equilibrio tra il rifuggire dal pettegolo impicciarsi e l'apatico disinteresse per chi ci fa parte, volenti o nolenti, del nostro mondo. Quando nel 2010, a Cosenza, un autista di un bus picchiò un povero vecchio di 78 anni, lasciandolo per terra nella totale indifferenza dei passeggeri, e soccorso solo da un auto di passaggio, mi chiedo se non sarebbe meglio talvolta essere più invadenti. I tanti che continuano a morire da soli avrebbero, tutto sommato, la gioia di poter scambiare ancora qualche parola con qualcuno.

Bibliografia e approfondimenti

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