martedì 31 dicembre 2013

Far finta di essere sani

Prendete un uomo già di una certa età, acciaccato dalla vita e stanco, che invece di andarsene in pensione è costretto a fare le ore piccole per vendere al dettaglio della merce da quattro soldi. Prendete una ragazzina orfana di una madre che non l'aveva voluta, che ogni sera si deve coprire con un scialle consunto per portare un po' di conforto al nonno. Prendete infine una donna amareggiata che, ammaliata dall'amore di un latin lover che si era illusa di poter sposare, si ritrova abbandonata per una donnina che canta in un caffè, senza più una carriera e con una neonata da crescere. Prendete infine il traditore, ucciso per vendetta dall'amante tradita, mentre allegramente passeggia con la sua nuova conquista.

Sembra quasi di leggere la cronaca di una giornata qualunque, di persone che vivono in una qualsiasi città del cosiddetto Occidente. Invece, si tratta di una novella scritta ben 108 anni, nel 1905, che ci conferma come il dramma della solitudine sia costantemente presente nelle nostre esistenze, nonostante i grandi cambiamenti di costume e abitudini avvenuti in oltre un secolo.

Si tratta di uno dei 241 racconti che formano la mirabolante raccolta conosciuta come "Novelle per un anno", che nell'idea iniziale del suo autore, Luigi Pirandello, doveva essere composta da 24 raccolte per un totale di 365 novelle, giusto una per ogni giorno dell'anno. La novella di cui stiamo parlando è "Lo scaldino", pubblicata nel 1905 sul Corriere della Sera. Nel 1920, il regista romano Augusto Genina la usò come soggetto per un film muto, proprio negli anni in cui lo scrittore agrigentino scopriva la "settima arte".

I protagonisti del racconto sono dei poveracci che la vita costringe alla solitudine. Papa-re, un vecchio giornalaio e rivenditore di sigarette che ogni sera si rinchiude in un freddo chiosco attendendo che la giovane nipote gli porti uno scaldino di terracotta riempito di carbone, vive nel ricordo di Roma governata dallo Stato della Chiesa, da cui verosimilmente il nome, e non si accorge che il mondo è cambiato quando strillona per strada la notizia della rivoluzione in Russia (quella del 1905, a cui seguirà la grande rivoluzione del 1917 e l'avvento del comunismo). La nipote è quasi un'ombra, che vestita di cenci appare puntualmente ogni sera, ma che, forse per la troppa stanchezza, fa cadere malauguratamente quel vaso di coccio che il nonno aspetta con bramosia, rompendolo in mille pezzi. Infine, Rosalba, la donna ferita dal tradimento che sperava in un ruolo di moglie, e che a motivo del suo amore cieco era stata disposta a prendere le botte e subire la fame. Infine, c'è la neonata, la figlia che Rosalba non ha la forza di crescere e che abbandonerà nelle mani generose di Papa-re.

Sono quattro vittime, accomunate da una esistenza infelice: un vecchio solo, un'orfana, una donna tradita, una bambina non voluta. Eppure, il colpo di scena avviene alla fine, come ci saremmo aspettati: Rosalba si rifugia nel chiosco di Papa-re, e quando questi, riscaldato dal calore della neonata che tiene sulle gambe, si assopisce, lei si apposta sulla porta pronta a sparare Cesare il milanese, l'uomo che l'ha sedotta e abbandonata.

Scoppia il panico! Tutti accorrono, per portare l'uomo ferito in ospedale. Ne parleranno ancora quella sera, e la prospettiva si ribalta: adesso la vittima è lui, il milanese, oscurando con la sua figura le esistenze gracili degli altri quattro, relegati infine a semplici figuranti nella commedia della vita.

Pirandello, con l'abilità che lo contraddistingue, riusce a centrare un punto focale tristemente attuale: i nostri drammi personali passano sempre in secondo piano. I giornali sono ricchi di dettagli che riguardano le vicende più o meno onorevoli di personaggi pubblici, e una loro malattia, incidente o disgrazia diventa l'argomento più importante, facendoci quasi imbarazzare quando, tra le pareti delle nostre case, ci confrontiamo con i nostri dolori personali.

Leggendo la novella "Lo scaldino" sembra quasi di passeggiare virtualmente in via Piccolomini, a Roma, osservando quel famoso effetto ottico che fa sembrare la cupola di San Pietro sempre più grande, man mano che ci si allontana. Forse dipenderà dalla leggera inclinazione della strada, che è un falsopiano, o dalla disposizione degli edifici: sta di fatto che la prospettiva è invertita. E così, più Papa-re e gli altri personaggi della novella tentano di ritagliarsi un proprio spazio allontanandosi idealmente dal caffè e dai suoi avventori, più riscontrano di essere solo marionette dello spettacolo il cui vero protagonista è lui, Cesare, il belloccio ferito quasi a morte, innamorato della cantante Mignon.

Tutti fingono, in realtà. Cesare il milanese finge il suo ruolo di martire sull'altare della libertà da ogni legame e condizionamento, mentre Rosalba finge di essere madre mentre rimpiange il suo vecchio impiego di canzonettista. Anche la nipote finge di essere quello che non è, ovvero una ragazza a servizio di un vecchio stanco. E Papa-re? Finge. Tutti "fanno finta di essere sani", come direbbe Gaber, nascondendo le proprie miserie dietro una vita all'apparenza normale.

Il racconto si conclude così:
Accorse di furia una vettura, che, poco dopo, scappò via di galoppo, verso l'ospedale di Sant'Antonio. E un groviglio di gente furibonda passò vociando davanti al chiosco e si allontanò verso Piazza delle Terme. Altra gente però era rimasta lì, sul posto, a commentare animatamente il fatto, e Papa-re, con gli orecchi tesi, non si moveva, temendo che la bimba mettesse qualche strillo. Poco dopo, uno dei camerieri del caffè venne a comperare un sigaro al chiosco.
 - Eh, Papa-re, hai visto che straccio di tragedia?
 - Ho... inteso... - balbettò.
 - E non ti sei mosso? - esclamò ridendo il cameriere.
 - Sempre col tuo scaldino, eh? Col mio scaldino, già... - disse Papa-re, curvo, aprendo la bocca sdentata a uno squallido sorriso.
La bocca sdentata del povero vecchio nasconde il suo imbarazzo, e il suo terrore che scoprano che al posto dello scaldino c'è adesso una neonata che, beatamente, dorme sulle sue ginocchia. Si legge, fra le righe della novella, quello che il Padre dirà anni dopo nei "Sei personaggi in cerca d'autore" (1920) quando, descrivendo al Capocomico l'orrore provato nel trovare la Figliastra dove non doveva essere, e dove lui era andato a cercare amore, dice:
Signore, ciascuno - fuori, davanti agli altri - è vestito di dignità: ma dentro di sé sa bene tutto ciò che nell'intimità con se stesso si passa, d'inconfessabile.
Anche Papa-re freme. Non prova orrore per sé, ma di quello che potrebbero dire di lui, o meglio, scoprire in lui. Continua a fingere disinteresse, ed è disposto a subire lo scherno del cameriere che va a comprare da fumare, pur di nascondere quello che è veramente. Non una cattiva persona, né uno con gli scheletri nell'armadio, ma solo un povero e buon vecchio. Rosalba gli ha affidato la bimba non voluta perché, nella sua compartecipazione di sentimenti, è stata l'unica a cogliere in Papa-re un tratto di umanità che né lei, né Cesare, né la nipotina hanno, quest'ultima sembrando quasi un automa, un orologio svizzero privo di emozioni che fa semplicemente il suo dovere.

Giorgio Gaber, quasi settant'anni dopo la scrittura della novella, canterà ancora quello sforzo collettivo di apparire normali con i versi della sua "Far finta di essere sani":
Liberi, sentirsi liberi
forse per un attimo è possibile
ma che senso ha se è cosciente in me
la misura della mia inutilità.

Per ora rimando il suicidio
e faccio un gruppo di studio
le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani
far finta di essere sani.
Gramsci e la lotte di classe, per sembrare normali. Per dare un senso alla propria "inutilità", come canta Gaber. Lo scaldino, quell'umile oggetto di terracotta, si riduce in cocci, quasi a simbolo del contrasto tra la vita apparente e la voglia di "essere sani", e la realtà, dove gli altri leggono in noi quello che non pensiamo di essere, e dove viviamo nella paura recondita di sembrare diversi.

Viene fuori quello che il Padre dirà anni dopo nei Sei personaggi, concetto che poi sarà ripreso in Uno, nessuno e centomila, e che invito a riascoltare nella indimenticabile interpretazione di Romolo Valli, del 1965:

Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser sempre "uno per tutti", e sempre "quest'uno" che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n'accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell'atto!
Bibliografia
  • Gaber Giorgio, Far finta di essere sani (1974)
  • Pirandello Luigi, Lo scaldino (1905)
  • Pirandello Luigi, Sei personaggi in cerca d'autore (1921)

giovedì 21 novembre 2013

Un sogno da sorcino

Sono stato ad uno spettacolo di Renato Zero. Nel farlo ho superato alcune barriere personali. Non mi riferisco a quelle relative all’orientamento sessuale dell’artista, di cui poco mi importa e credo poco importi a tutti quelli che lo seguono, ma piuttosto quelle relative alla validità della proposta artistica del famoso “cantattore”.

Avendo superato da un bel po’ i quarant’anni e avvicinandomi ai cinquanta sono vissuto in quel periodo in cui sono cresciuti e si sono affermati diversi mostri sacri della musica italiana. La maggior parte di loro suscita il mio rispetto e la mia ammirazione. Riuscire a rimanere nella breccia per quaranta e più anni e riuscire a riempire ancora un palazzetto dello sport (stendiamo un velo pietoso sulla vendita dei CD che ormai fa parte dell’archeologia della musica) ha del miracoloso. Alcuni di loro li ascolto e li vedo con piacere. Non tanto per la proposta musicale (praticamente tutti ripropongono in maniera ossessiva ed auto celebrativa se stessi). Né per la capacità di dare spettacolo. Al di la della indubbia professionalità di diversi dei mostri sacri della musica italiana, è imbarazzante vedere persone di oltre sessant’anni fare movimenti goffi su un palco senza riuscire neanche lontanamente a suscitare le emozioni che suscitavano nel pubblico al culmine della loro carriera artistica. Ma li vedo con piacere perché rappresentano una sorta di anello di congiunzione con la mia adolescenza e riescono ad anestetizzare la consapevolezza di star invecchiando. Per allargare il discorso, per la stessa ragione ogni tanto compro un comic americano (Marvel o Dc). Non riesco più a sognare di emulare il mio super-eroe preferito. Ma ricordo che da ragazzo lo facevo e mi fa stare bene.

Ritornando a Renato Zero mi sono lasciato convincere e ho acquistato due biglietti, uno per me e uno per mia moglie. Sono entrato nel palazzetto dello sport che ospitava lo spettacolo pieno di timori. Ho cominciato a chiedermi: a che punto dello spettacolo mi addormenterò?

Devo anche premettere che neppure da ragazzo Renato Zero mi riscaldava più di tanto. La sua ostentata (e finta, a quanto lui stesso dichiara) omosessualità mi dava fastidio. Come pure mi infastidiva il contenuto di molti suoi brani provocatori, per l’epoca, al limite del cattivo gusto. Certo paragonate con certe brutture proposte dalla televisione attuale (i vari Amici e X-Factor), tutti i cantautori e gruppi italiani degli anni settanta sembrano dei giganti della musica e dello spettacolo. E Renato Zero giganteggia sicuramente sui vari prodotti usa e getta delle reti Rai e Mediaset. Pertanto con uno spirito critico al limite del dire “mi alzo e me ne vado” ho preso il mio posto e ho osservato con attenzione ogni cosa. Il suo pubblico, composto per lo più di persone della mia età, il palco, il sipario, le luci e alla fine lui. Il sipario si è alzato e lui si è fatto avanti cantando uno dei suoi pezzi storici e maggiormente autobiografici, “La favola mia”, preceduto dalla voce di un bambino narrante che celebrava la capacità di Renato di aver realizzato i suoi obbiettivi, contro tutto e tutti. Mi sono trovato di fronte ad un gigante dello spettacolo. Come tutti i grandi della musica italiana Zero è stato auto-celebrativo e auto referenziale, ma di fronte alla manna per gli occhi e per le orecchie che ha offerto gli si perdona tutto, anche la retorica. Ha saputo condire la sua nuova proposta, il suo ultimo lavoro “Amo”, con uno spettacolo veramente di alto livello.

A differenza di altri suoi colleghi, Zero non indulge molto nella riproposizione dei suoi vecchi successi. Né dedica, come fanno la maggior parte delle vecchie glorie, l’ultima parte dello spettacolo alle vecchie hit. Pertanto mancano dalla scaletta vecchi successi come “Triangolo”, “Mi vendo” o “Spalle al muro”. Ma alcuni capisaldi del suo repertorio vengono sparsi qua e la durante lo spettacolo insieme alle canzoni del suo ultimo lavoro. E mi sono ritrovato a cantare insieme ai “sorcini” (così chiama il suo pubblico) brani come “Madame” o “Baratto”. Mi sono divertito da matti nel vederlo fare la “checca”, prendendo in giro i cosiddetti perbenisti. Ho pianto per Lucio Dalla, da lui ricordato in uno struggente brano dal titolo “Lu”. E ho applaudito, fino a spellarmi le mani quando ha omaggiato il grande Giancarlo Bigazzi, morto di recente, con il brano “Un’apertura d’ali”. E nell’ultimo brano, inno alla vita e alla positività, lo struggente “Il Carrozzone”, eseguito in maniera magistrale dal maestro Renato Serio, ho colto la vera essenza di Renato Zero. Un grande professionista, che ha creduto ad un sogno, il suo, ha lottato per realizzarlo, e lo ha fatto condividere a milioni di persone.

E in un momento della nostra storia in cui manca completamente un sogno e siamo in mano a ciarlatani e incompetenti, posso solo dire grazie a Renato Zero per avermi fatto sognare che la vita non è solo “PIL” e “spread” ma anche valori e che si può ancora sperare che il peggio sia passato. Grazie di cuore, Renato.

lunedì 11 febbraio 2013

Fanatismi antichi e moderni

L'imperatore di Bisanzio Costantino VII, detto Porfirogenito, vissuto alla fine del X secolo, si era convinto che i musulmani fossero adoratori di Venere. Per buona parte della sua vita si era dedicato allo studio, essendo divenuto imperatore a quarant'anni, e si fece una certa fama come scultore e pittore. Era un uomo certamente istruito, ma riguardo ai seguaci dell'Islam scrisse:
E pregano piuttosto alla stella di Afrodite, che chiamano Koubar, e nelle loro implorazioni gridano "Alla wa Koubar", che significa "Dio e Afrodite". Poiché chiamano Dio "Alla" e "wa" lo usano come congiunzione, e chiamano la stessa "Koubar" e così dicono "Alla wa Koubar". (Costantino Porfirogenito, De Administrando Imperio 14)
Costantino Porfirogenito aveva frainteso la frase araba Allahu akbar, ovvero "Dio è grande". Questa idea non era nuova, ma derivava da un errore di traduzione che aveva fatto Giovanni Damasceno, teologo originario di Damasco vissuto fra il VII e VIII secolo. Una delle parti della sua monumentale opera, conosciuta come La fontana della sapienza, si intitolava Riguardo alle eresie, il cui centotredicesimo capitolo trattava della Eresia degli ismaeliti, ovvero degli arabi, ritenuti discendenti di Ismaele, figlio maggiore di Abraamo e della sua chiava Agar. In quella che sembra sia una delle più antiche confutazioni dell'Islam, fu il primo ad affermare che adorassero Afrodite o Venere, che essi avrebbero chiamato Khaber o Chaber.

E dire che Giovanni si chiamava Yana o Iyanis e che parlava e capiva perfettamente l'arabo! Ciò nonostante, l'incomprensione (più o meno volontaria e fanatica) nei confronti dell'Islam avrebbe dato origine a un conflitto culturale e religioso che dura ancora oggi.

Il fanatismo è forse roba da Medioevo? Qualche anno fa, Amos Oz pubblicò il suo "Contro il fanatismo", il cui messaggio è: non esistono buoni o cattivi nel confitto tra gli israeliani e i palestinesi. C'è una frase che mi piace nel suo libro:
Il fanatismo è più antico dell'Islam, del cristianesimo, dell'ebraismo, più antico di ogni stato o governo (Amos Oz, Contro il fanatismo)
La trovo illuminante. E' facile associare la religione al concetto di estremismo. Ovviamente, i cristiani sono altrettanto responsabili, con le Crociate e la Santa Inquisizione, con i terroristi di Settembre Nero, o più recentemente di Al Qaida. E nessuno nega che la componente religiosa abbia un suo peso. Ma è semplicistico affermare che la causa scatenante sia la religione. Quasi nessun credo incoraggia all'odio e alla mancanza di rispetto, semmai è usato come movente e giustificazione per cristallizzare la paura e l'odio per il diverso.

Oz è noto per i suoi sforzi per garantire la pace e la convivenza fra israeliani e palestinesi. Nel marzo 2011, inviò una copia in arabo del suo libro Una storia di amore e di tenebra a Marwan Barghouti, politico palestinese ed ex leader di Tanzim, ritenuto leader della prima e seconda Intifada e condannato all'ergastolo per diversi omicidi. C'era una dedica, in ebraico, che diceva:
Questa storia è la nostra storia, spero che la leggerai e ci capirai come noi capiamo te, sperando di vederti fuori e in pace.
Ovviamente Oz è stato attaccato da molti, specialmente da elementi della destra israeliana. Può un gesto di buona volontà avere senso? Criticandolo, chi si è dimostrato realmente fanatico?

La questione, come si vede, è ancora aperta.



Bibliografia

  • Amos Oz, Contro il fanatismo, 2010
  • Costantino VII Porfirogenito, De Administrando Imperio, X secolo
  • Giovanni Damasceno, De Haeresibus, capo 113, in Migne, Patrologia Graeca
  • Articolo riguardante Amos Oz, The Jerusalem Post, 15 marzo 2011, disponibile a questo link (consultato l'11 febbraio 2013)

martedì 29 gennaio 2013

Candido e il trasformismo italiano

Nella letteratura siciliana, uno dei fili conduttori è la capacità di mutare, adattandosi agli eventi e facendo delle scelte, più o meno interessate, per restare a galla. Senza bisogno di soffermarsi molto sulla troppo citata (ma sempre valida) frase di Tancredi, ovvero "bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla", si pensi invece al nonno di Candido Munafò, protagonista dell'omonimo romanzo Candido di Sciascia.

Candido ha perso il padre Francesco Maria, suicidatosi perché il figlio ha innocentemente rivelato il suo coinvolgimento in un omicidio, e la madre Maria Grazia, fuggita con un militare americano. E così, il ragazzo viene educato dal nonno Arturo Cressi, rispettabilissimo ex generale fascista ora riciclatosi e diventato deputato democristiano. Il ragazzo, prole di una cattolicissima famiglia (sia il padre che la madre si chiamano "Maria"), di quel cattolicesimo tipico di molti italiani e siciliani, tutta parvenza sociale e poca sostanza, dovrebbe crescere solido in quei valori che il nonno vorrebbe inculcargli.

Ma presto, il generale (ora deputato) è a disagio: quel suo nipote è diverso, e lo affida alle cure di Concetta, donna semplice e bigotta, mentre l'arciprete don Antonio sarà responsabile della sua crescita spirituale. Un quadro perfetto, il cui risultato sarebbe prevedibile. Ma qui nasce il problema: Candido, nomen omen, non riesce a indossare l'abito preconfezionato di sano giovane borghese che gli è stato preparato. Il suo carattere è in continua formazione e le sue scelte saranno insolite, e anche grazie all'arciprete arriverà al punto di iscriversi al PCI, ma ahimé manca di quel tratto fondamentale del buon italiano: pur trasformandosi, non riesce ad essere trasformista.

Il nonno deputato (ex generale) è invece un ottimo esempio di quel costume italiano, definito nel termine trasformismo: non ama la chiesa, da buon fascista, ma suo malgrado è abile nel diventare un rispettabile deputato della DC, il partito clericale, moderato e soprattuto di governo per tanti decenni. Il generale (ora deputato) è acuto, e ha fiutato il vento. Per sopravvivere, è capace di indossare la maschera del baciapile, purché mantenga il suo status sociale.

Quasi ottant'anni prima degli eventi descritti da Sciascia, un altro abile manovratore riusciva cristalizzare, almeno ufficialmente, quel fenomeno politico che ha caratterizzato la politica italiana per secoli. L'8 ottobre 1882, in un discorso pre-elettorale, Agostino Depretis rispose a chi lo aveva accusato di aver cambiato il programma della Sinistra, dicendo:
"Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come io posso respingerlo?"
Da quella frase pronunciata nell'autunno 1882, nasce il termine "trasformismo", ovvero quel modo italiano di sapersi opportunisticamente adattare. Fenomeno poi continuato e perfezionato da Crispi e Giolitti, che riescono a farlo passare per spirito progressista. Il periodo post-fascista e poi la nascita della Seconda Repubblica dopo Tangentopoli hanno semplicemente riaffermato questo costume in cui l'abilità si misura nella capacità di saltare da una posizione all'altra, piuttosto che nella coerenza.

Questo mi fa pensare a una bella canzone di Gaber, "Il conformista", che fa parte dell'album "La mia generazione ha perso", che riassume bene il concetto:
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono
neanche più fascista
... qualche anno fa nell'euforia mi sono sentito
come un po' tutti socialista

Il conformista
è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta
... è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

... sono pacifista
ero marxista-leninista
e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

C'è un'altra vecchia canzone di Guccini del 1967, che sembra quasi la versione musicata di Candido, intitolata "Il 3 dicembre del '39". E' un racconto ironico in prima persona, di un uomo nato in epoca fascista e ovviamente chiamato Benito Pio, la cui madre dopo l'armistizio dell'8 settembre diventa prima filo-americana, chiamando il figlio Jack, e successivamente, dopo aver sposato un membro del Consiglio Nazionale di Liberazione, diviene "proletaria" ribattezzandolo Benski-Stalin. Ma dopo il boom economico, la "santa donna" capisce l'errore fatto e ritorna all'antica fede, e il figlio Benito-Jack-Benski-Stalin si sente democristiano, per poi capire che la sua vera aspirazione è il socialismo, visto che la sua fabbrica gli fa guadagnare solo un miliardo all'anno (il trasformista ovviamente segue il profumo della cartamoneta).


Oggi gli ex cattocomunisti, ex democristiani, ex fascisti ed ex socialisti invadono la politica italiana. Con orgoglio e determinazione il politico del Bel Paese porta avanti una tradizione iniziata secoli fa, senza tradire mai il suo grande amore e interesse per sé stesso, la famiglia e gli amici. Houdini impallidirebbe dinanzi all'abilità di schivare colpi e sventare tranelli di una generazione senza ideali, la cui massima aspirazione è un posto al sole (ben pagato, s'intende). D'altra parte, anche questa è un'arte!

Una frase che sintetizzi il trasformismo italiano? Credo che sia molto efficace l'ultimo verso della canzone citata di Guccini, che per tantissimi candidati potrebbe essere il motto delle prossime (e passate) elezioni:
Io chiesa, nobili e terzo stato sempre ho fregato solo per me

Bibliografia
  • Gaber Giorgio, Il conformista
  • Guccini Franceso, Il 3 dicembre del 1939
  • Sabbatucci Giovanni, Trasformismo, Enciclopedia delle Science Sociali, Treccani.it (disponibile a questo link, consultato il 29 gennaio 2013)
  • Sciascia Leonardo, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, 1977, acquistabile qui

sabato 26 gennaio 2013

Itangliani si nasce

All'inizio del Novecento, in Italia nacque una polemica, che restò viva per decenni raggiungendo forse il suo apice nel periodo fascista ma che ha avviato una discussione che dura da decenni, circa l'uso o meno dei cosiddetti forestierismi: era giusto usare termini francesi o tedeschi (e oggi diremmo, inglesi), o era meglio "italianizzarli"?

In quegli anni del dopo Unità d'Italia, il movimento irredentista aveva provocato un forte sentimento nazionalista e una repulsione per quello che era straniero e visto come elemento "invasore". Come conseguenza, anche sul piano linguistico nacque in molti una forte avversione per qualunque "intrusione" nella lingua del Bel Paese. Così, il sindaco Cruciani Alibrandi di Roma (poi senatore del Regno d'Italia) il 20 gennaio 1906 emise un'ordinanza, con la quale si vietavano le scritte integralmente in lingua straniera, che però erano permesse se accompagnate dalla traduzione italiana. Sei giorni dopo, Luigi Pirandello scriveva un articolo sulla "Gazzetta del popolo", uno dei più importanti quotidiani italiani, difendendo la scelta del sindaco. L'iniziativa del sindaco era giustificata, scrisse, e anzi propose di istituire una commissione che suggerisse quale equivalente italiano usare al posto del forestierismo, sostituendo ad esempio marsina a frack (scritto con grafia tedesca), barbiere a salon e soprabito a pardessus. Parlando dell'insegna francese chemiserie ("camiceria") ironizzò:
Si può leggere in francese, e si può leggere benissimo anche in italiano, senza alterar di modo il senso. Dico, almeno della sua e della nostra italianità. CHE MISERIE.
Pirandello era un purista, o addirittura uno xenofobo? Per lui che aveva studiato a Bonn e la cui opera avrebbe avuto una diffusione di carattere internazionale, parlare di xenofobia sembra eccessivo. Ma se inquadriamo la sua difesa nel sentimento comune degli italiani di quell'epoca, possiamo capire (anche se non del tutto condividere) la sua scelta.

In epoca fascista, questo fenomeno fu chiamato "neopurismo", termine coniato da Bruno Migliorini, linguista e filologo italiano. Il quotidiano "La Tribuna" nel 1932 bandì un concorso per sostituire 50 parole straniere, fra il 1932 e il 1933 Paolo Monelli tenne una rubrica nella "Gazzetta del popolo", chiamata Una parola al giorno, con la quale si proponeva la sostituzione di termini stranieri (che poi raccolse in un libro chiamato Barbaro domino, pubblicato da Hoepli nel 1933). Già nel 1923 un decreto del governo aveva previsto una imposta quadrupla per le insegne commerciali che contennevano forestierismi, ma nel 1937 fu portata a ben 25 volte.

Nella seconda metà degli anni Trenta, si raggiunse l'apice: nel 1938 ci fu la famosa proibizione del Lei per i dipendenti statali, e nel frattempo diversi enti furono costretti a cambiare il nome (e il Touring Club Italiano divenne nel 1937 così la Consociazione turistica italiana). Dal 1939 fu proibito dare un nome straniero ai neonati italiani, finché nel 1940 si proibì l'esposizione di qualunque parola straniera nelle intestazione di ditte, attività professionali o insegne.

Alcuni termini entrarono nella lingua italiana per restarci per sempre, ad esempio regista al posto del francese régisseurautista per chauffer, ma in altri casi l'epilogo raggiunse il ridicolo: il dribbling divenne il calceggio (oggi palleggio), e si arrivò a proporre la parola puttanambolo per il tabarin (tipico locale notturno, simile alle italiche balere).

Oggi, nell'era del computer e di Internet, l'inglese è entrato con prepotenza nel nostro linguaggio quotidiano. Eppure, alcuni studiosi come Arrigo Castellani e più recentemente un movimento culturale contro l'itangliano ha riacceso le speranze di riportare l'italiano a una forma più pura. Castellani ha fatto delle proposte interessanti ma senza successo, come fubbia [fu(mo) + (ne)bbia] per smog, guardabimbi per baby-sitter, ubino per hobby, velopattino per windsurf, vendissimo per best-seller e trotterello per jogging.

La prof. Maria Luisa Altieri Biagi, accademica della Accademia della Crusca, scrivendo nel 2006 nella rubrica culturale della "Nazione", ha proposto non di eliminare certi termini entrati nella lingua di ogni giorno, ma di "italianizzarli", adattandoli alla morfologia e fonetica della lingua italiana che prevede, ad esempio, che le parole terminino per vocale. Così, guarderemmo un filme (e non un film), interrotti ogni tanto da uno spotto (e non spot), per poi discutere con gli amici di sporte (e non sport).

Ovviamente, talvolta si sente abusare dell'inglese anche in contesti non tecnologici, e basterebbe dire "revisione della spesa pubblica" invece di spending review o "telefono senza filo" invece di cordless. D'altra parte, ogni lingua è in continua evoluzione, e l'italiano non fa eccezione, dopo aver assorbito per secoli termini provenienti da altre lingue. Ma qualora ci si sentisse invasi da un forte sentimento di italianità, sarà utile tenere a portata di mano la lista esaustiva che si può trovare sul sito Internet di Achyra.org, e che per esempio potrebbe farci dire:
Oggi lo scaricamento (=download) dalla Interrete (=Internet) era lento, forse dipende dal mio calcolatore (=computer). Farò una prova dalla mia tavoletta (=tablet), altrimenti dovrò riavviare il mio instradatore (=router), e nell'attesa potrò sorseggiare un po' di acquavite (=whiskey) con ghiaccio.
La famosa canzone patriottica "La leggenda del Piave", conosciuta ai più come "La canzone del Piave", concludeva ognuna delle sue quattro strofe con la parola "straniero". Un suo famoso verso riassume bene il sentimento di chi vorrebbe un italiano neopuro:
Il Piave mormorò "Non passa lo straniero!"
Risponderebbe Totò: "Itangliani si nasce. And I was born, modestamente!".

Bibliografia

martedì 15 gennaio 2013

Chi siamo? Sei personaggi e il dramma di essere "centomila"

Nella commedia (o dramma) pirandelliana Sei personaggi in cerca d'autore, il Padre cerca di spiegare la sua tragedia. La sciagurata circostanza di incontrare Figliastra dove non avrebbe dovuto e voluto, nella casa di Madama Pace, che lui frequentava, e dove lei aveva preso a prostituirsi. La vergogna provata dal Padre, nel tentare di esprimere quello che aveva provato, è espressa dalla battuta che segue:
"Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi—veda—si crede «uno» ma non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello—diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser sempre «uno per tutti», e sempre «quest'uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n'accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell'atto!" (Sei personaggi)

Toccante è l'interpretazione fatta del compianto Romolo Valli, visualizzabile nel video incluso in questo post. Il Padre capisce che quel singolo atto, quell'errore, lo ha marchiato per sempre, ed è diventato "tanti", non più quell'"uno" che lui credeva di essere, ma la maschera che gli è stata attribuita giudicandolo.

Il dramma (o la commedia) raggiunge l'apice nella scena in cui il Padre e la Figliastra sono abbracciati, e la Madre urla. Grida, disperata. Protesta contro quel gesto. Il Padre ha ormai raggiunto il punto di non ritorno, e la sua idea di sé stesso si è smembrata, mutandosi per sempre "tanti", e capendo che adesso resterà eternamente alla gogna. La sua maschera è quella del patrigno-orco, a cui spesso purtroppo oggi ci siamo abituati.

Potrà il Padre riscattarsi? La discussione è antica, già affrontata ferocemente quando nel terzo secolo Ippolito e Tertulliano attaccavano Callisto sulla questione dei lapsi, ovvero di coloro che avevano peccato gravemente e che non erano più meritevoli di perdono, secondo la scuola più severa dei primi due, ma che Callisto accettava nella sua comunità.

Non voglio entrare nel merito di questo aspetto delicato, che coinvolge l'etica, il senso di giustizia e la fede, benché sia convinto che in certi casi il perdono possa essere difficilmente praticabile. Ma il punto è un altro: Chi siamo veramente?

Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, scopre per colpa del suo naso che la realtà non è oggettiva. Mattia Pascal, nel romanzo omonimo Il fu Mattia Pascal, decide volontariamente di indossare una nuova maschera o identità, divenendo Adriano Meis, ma rendendosi conto che è andato oltre al limite stabilito, perché non esistendo per lo Stato in realtà non può né sposarsi né denunciare un furto, ed è costretto a tornare alla sua vita di un tempo. Il Signor Ponza, nella commedia Così è, se vi pare, è pazzo nel suo ruolo di marito, o è pazza la suocera, signora Frola, a credere che la figlia non sia morta? Chi dei due, il signor Ponza o la signora Frola, ha scavalcato il "tanti" o "centomila" pretendendo di far accettare dalla società l'"uno"?

E oggi, chi è veramente pazzo? Chi pretende di essere quello che non è? O chi vive le sue molteplici identità, quella dell'uomo pubblico, del lavoratore esemplare, e del marito/moglie e genitore indifferente? Lo sforzo di essere più trasparenti gioverebbe, perché l'ipocrisia diffusa tende a confondere e genera sfiducia, ma d'altra parte è altrettanto difficile cambiare i "centomila" che siamo diventati. Non impossibile, ma difficile.

I Sei personaggi restano un'ambivalente commedia (così come definita dallo stesso Pirandello) e dramma, in cui le risate sarcastiche della Figliastra combaciano con i pianti della Madre, come elementi di un puzzle più grande. E ricordano quanta fatica si faccia nella vita a cambiare il corso delle cose, lottando contro forze più grande di noi e sentendo nel nostro intimo, spesso, che la meta è perduta. Meglio essere saggi, che poi dover rimpiangere, come il Padre, quell'unico atto che ci ha marchiati per sempre.

Eppure, esiste una speranza. In fondo, possiamo sempre afferrare il timone, e cercare di evitare gli sbagli più grossi, di cui ci rammaricheremo, accettando le nostre piccole sconfitte e ostinandoci a proseguire, anche controcorrente, nel nome di un bene più grande. Qualcuno penserà: "Una vita ispirata all'estetica?" No, semmai una esistenza in cui rispetto per gli altri e per sé stessi convivono. Difficile, forse ardua: ma non impossibile.
E tu, lenta ginestra,
... anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle
... ma più saggia, ma tanto
meno informa dell'uom
(La ginestra)
Approfondimenti
  • Giacomo Leopardi, La ginestra, 1836
  • Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore, 1921
  • Luigi Pirandello, Così è, se vi pare, 1917 e 1925

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lunedì 14 gennaio 2013

Le vite degli altri

Le vite degli altri sono e resteranno per noi un mistero insondabile. Nonostante lo sforzo immane delle filosofie antiche e recenti e della psicologia moderna di interpretare il comportamento umano e soprattutto di prevederne l'esito, la realtà è che non sappiamo quello che gli altri pensano. Incluso chi ci è più vicino e che conosciamo bene, che talvolta sfugge da quel senso di complicità e affetto che ci permette di leggere fra le righe. Sarà mai possibile perciò intendere a fondo il motivo vero e recondito delle scelte altrui?

Il morboso interesse per quello che avviene quando la persona che abbiamo incontrato o conosciamo gira l'angolo, o si rifugia a casa sua, o va via dall'appuntamento che avevamo con lei, se non controllato, può generare le deviazioni che sono state tipiche di tanti regimi (e che purtroppo lo sono ancora), ben illustrate dal film Le vite degli altri di von Donnesmarck. Lì, un capitano della Stasi il cui lavoro è ascoltare quello che gli altri dicono e indagare su quello che fanno, a un certo punto della sua vita ha un ripensamento. Il dubbio nasce dalla lettura di un volume di Brecht, ma il punto di svolta è leggere l'inchiesta scritta dall'uomo che sta spiando, lo scrittore Dreyman. E mettendo in discussione la sua carriera e la sua sicurezza personale (non dimentichiamoci di essere nella Germania Est comunista), il capitano Wiesler fa la cosa che reputa giusta. E smette di occuparsi di spiare gli altri.

Ma fa bene Wiesler? Ovviamente, il discorso in questione non è la speculazione fatta in chiave politica di chi vorrebbe impedire le intercettazioni, strumento indispensabile per perseguire i molti delinquenti spesso con colletto bianco della decadente nazione che è diventata l'Italia. Quando il lungometraggio fu trasmesso il 9 febbraio 2011 da Raidue, l'intento di alcuni fu subito di usare il film per discutere del ruolo dei giudici, paragonati a spioni della DDR, che invece fanno solo il loro lavoro a repentaglio della propria vita. Eppure, la domanda resta: Wiesler ha fatto bene?

Amos Oz, Scene dalla vita di un villaggioAmos Oz, nel suo Scene dalla vita di un villaggio, narra in otto racconti brevi ma intrecciati fra di loro di un piccolo villaggio, Tel Ilan, dove accadono dei fatti misteriosi. Oz si intrufola nella vita degli altri, la segue brevemente quasi con gusto fotografico, e poi improvvisamente sposta il suo obiettivo altrove. Non sapremo mai se Benni Avni resterà seduto sulla panchina ad aspettare la moglie che l'ha lasciato, o se tornerà a casa sua. O che fine ha fatto il nipote della dottoressa Ghili Steiner, che lo aspettava con ansia ricordando i momenti trascorsi insieme quando lui era piccolo. O chi scava sotto casa Kedem, udito solo dal vecchio onorevole in pensione Pesach, e dallo strano inquilino, uno studente arabo, ma non dalla figlia di Pesach, Rachel Franco. Lo scrittore israeliano costruisce un micromondo molto simile a quello in cui tutti viviamo, ignari della vita del nostro vicino, del postino, del commesso o del poliziotto che ci ha sorpassato, ma un po' curiosi e interessati a capire le dinamiche altrui.

Fa bene Oz ad interessarsi delle vite degli altri? Fa male Wiesler a smettere di farlo? La nostra natura umana non potrà mai prescindere da quell'innata curiosità per chi ci abita attorno. Non siamo né diverremo mai isole. Il segreto sta nell'aggraziato equilibrio tra il rifuggire dal pettegolo impicciarsi e l'apatico disinteresse per chi ci fa parte, volenti o nolenti, del nostro mondo. Quando nel 2010, a Cosenza, un autista di un bus picchiò un povero vecchio di 78 anni, lasciandolo per terra nella totale indifferenza dei passeggeri, e soccorso solo da un auto di passaggio, mi chiedo se non sarebbe meglio talvolta essere più invadenti. I tanti che continuano a morire da soli avrebbero, tutto sommato, la gioia di poter scambiare ancora qualche parola con qualcuno.

Bibliografia e approfondimenti

domenica 13 gennaio 2013

Quando muore un poeta


Il 3 gennaio 2013 è venuto a mancare improvvisamente Valerio Negrini. I più lo ricordano come autore della maggior parte dei testi del più popolare gruppo musicale italiano, i Pooh, e probabilmente per qualcuno il discorso finisce qui.

Comprensibilmente quando si pensa alla musica leggera il pensiero va ad accordi semplici e parole altrettanto semplici anche se non sempre banali con l’obiettivo di catturare l’attenzione e l’ascolto, spesso usa e getta, del pubblico vasto.

I Pooh non hanno fatto e non fanno eccezione. Nel corso della loro quarantennale carriera hanno cantato canzoni veramente imbarazzanti su testi dello stesso Negrini, di cui lui poi  si è vergognato.  Un esempio è il testo della canzone del 1990 “Donne italiane” (dall’album “Uomini Soli”) che nel ritornello recita: ”Che belle che sono le donne italiane, coraggiose e romantiche, su schermi giganti  o acqua e sapone, delicate e fortissime.”  Anche il testo della ben più famosa“Canterò per te” (dall’album “…Stop” del 1980) rasenta la banalità quando fa cantare ai quattro Pooh: “Stella di giorno, frutto d'inverno io canterò per te se ti senti un aliante che cade strade d'aria avrai da me”.  Ma tant’è,  la musica leggera ha le sue regole e una di queste è vendere e per vendere spesso si devono scrivere e cantare delle cose che piacciono al pubblico ma che lasciano pochi segni nel cuore e nell’anima.

Per completezza bisogna dire che i lavori dei Pooh, anche i più commerciali, sono caratterizzati da estrema professionalità e non mancano brani dalla struttura musicale complessa, innovativa e comunque non banale. Ne cito alcuni: “Parsifal “(1973), “Il tempo, una donna, la città” (1975), “Il ragazzo del cielo” (1978), “L’ultima notte di caccia” (1979), “Inca” (1980), “Il giorno prima” (1984), “Dall’altra parte” (1987), “Città proibita” (1990), “Il silenzio della colomba” (1996), “Figli” (2002), “Ascolta” (2004) e l’ultima “Dove comincia il sole” (2010).

Valerio, che non amava definirsi “poeta” (disse che farlo era “un po’ pretenzioso”) né scrittore (“leggermente deviante”) e preferiva definire se stesso e quelli come lui persone il cui mestiere  è quello di mettere “la balena in una scatoletta di tonno”, dove la balena sono i testi e la scatoletta di tonno sono i tre-quattro minuti della canzonetta che poi va consumata nello spazio di altrettanti pochi minuti, ha lasciato testi che si potrebbero definire dei flash fotografici e hanno la rara virtù di scatenare l’immaginazione e permettere a chi ascolta la canzone di identificarsi con la storia narrata dalle sue parole e di poterla “vedere” nella mente. Questa, secondo me, è una delle ragioni per cui i Pooh non hanno mai avuto l’esigenza di “narrare” le loro canzoni con un videoclip promozionale, tant’è che la loro produzione video è piena di immagini dei loro concerti e di loro nelle più disparate posizioni e situazioni (corrono, parlano, cantano, disegnano e quant’altro) ma non di immagini che “spieghino” il testo della canzone.

Ci sono state, è vero, delle occasioni nella quarantennale storia del gruppo in cui i videoclip invece di far vedere la potenza degli spettacoli dei quattro hanno tentato di “spiegare” il testo con una storia ma il risultato è stato, secondo me, deludente. Un esempio è il clip di “Passaporto per le stelle” del 1983 (dall’album “Tropico del Nord”). Questo clip è contenuto in un “film” molto più lungo, all’epoca distribuito in VHS,  che aveva l’obbiettivo di celebrare la produzione dell’album “Tropico del Nord”. Per l’epoca fu un lavoro innovativo. Caraibi, studio di registrazione prestigioso, primo CD prodotto in italia, uso esteso (e forse eccessivo) del  Fairlight. I Pooh si presentavano al pubblico con un lavoro innovativo, prestigioso. E i testi di Negrini erano all’altezza.

Il brano in questione narra di una fuga nelle stelle di una coppia di novelli Adamo ed Eva che vengono spediti su un altro pianeta dal presidente americano visto che di li a poco l’umanità sarebbe sparita distrutta da un olocausto nucleare. Si era nel pieno della guerra fredda e non era raro  che scrittori, giornalisti e pure musicisti affrontassero il problema della paura di una guerra atomica.

Negrini riesce a mettere su un testo bellissimo che in alcuni punti rasenta l’escatologia biblica (“Benvenuti sulla spiaggia della nuova età cuccioli di un mondo che si è cancellato già  non guardate indietro mai, non dimenticate mai. Fate nuovi amori fate nuove geografie senza cattedrali, generali e nostalgie senza più bandiere mai e che questo sole sia con voi”). Ma il video è quanto di più banale potesse essere escogitato. Una spiaggia dei Caraibi, una barca arenata sulla spiaggia (a testimoniare che…? La distruzione?) e la strofa in questione cantata da un Facchinetti in canottiera, preceduto da una croce di luce, a cui poi si affiancano gli altri tre che cantano in coro, che insomma non sembra proprio l’ideale per personificare la “fortissima presenza” che benedice i “cuccioli di un mondo che si è cancellato già”.

Questo non va imputato solo a logiche commerciali dei quattro (ora tre) Pooh né ad una loro incapacità di fare un video decente. Secondo me è perché le parole di Valerio hanno una forza straordinaria e il tentativo di descriverle in un clip sarebbe riduttivo. Faccio qualche esempio.

“Lei e Lei”. (dall’album Parsifal). Il brano parla di un amore lesbico dal punto di vista di un uomo che sii vede rubata la moglie o la fidanzata dall’altra lei. Un tema scabroso (per l’epoca) affrontato con poesia e da un punto di vista unico. Valerio fa dire al lui : “Lei era amica anche mia sapeva cosa dirti quando tu senza ragione eri contro di me. No, non nascondo che io a volte ero turbato un po' da lei forse la desiderai” e poi alla fine quando realizza che la sua donna se ne va con quell’altra donna da lui ammirata, desiderata e che gli provocava più di un turbamento  gli fa dire: “Sai, fu l'abisso per me la sera che dicesti "vattene" in calma più che mai. Ma ciò che poi mi ferì di più fu quando chiesi: "Ma perché, per chi?".  Guardai dietro a te in un sorriso c'era lei, in silenzio vi guardai  ciò che vuoi, ma questo mai.”

La “poesia” di Valerio riesce a farci “vedere” la scena, ne udiamo le voci e ne vediamo i volti. Possiamo immaginare il sorriso della donna che lascia il suo uomo per una “lei” e riusciamo anche a “vedere” la faccia di lui deluso ed affranto mentre realizza ciò che gli sta accadendo. Come si potrebbe racchiudere il tutto in un video?

Oppure leggete il testo – capolavoro (pure la musica lo è, a mio parere) de “Il tempo, una donna, la città” del 1975 (dall’album “Un po’ del nostro tempo migliore”). L’incipit è poesia pura: “Polvere il vento nella valle scivola finestre semiaperte stridono sui muri silenzioso il sole giace. “ Poi nel testo recita: “Si avvicina lentamente a me resta in ombra il viso per un po’, è una donna e sembra sia  pur presente e viva”. Anche qui siamo nella poesia ermetica e dobbiamo affidarci a lui che ci spiega che questo brano e il suo testo, lunghissimo, quasi undici minuti di musica, è il racconto di un sogno e la donna è sua madre. Come si potrebbe “filmare” senza depauperarlo completamente della sua forza espressiva un testo del genere?

Valerio ha scritto le parole per quasi 400 brani. Come ho scritto sopra non tutti sono capolavori e alcuni rispondono a mere logiche commerciali. Ma quando è riuscito a raccontare una storia colpendo l’immaginazione, scaldando il cuore, segnando e disegnando la vita di chi ascoltava la “canzonetta” con un processo di identificazione in cui il protagonista diventava lo stesso fruitore, Negrini, ha involontariamente fatto “poesia”.

Il 3 gennaio del 2013 i Pooh non hanno perso soltanto il loro paroliere. Noi abbiamo perso un poeta. E quando muore un poeta:
“Al mondo c'è meno luce, per vedere le cose. Quando muore un poeta gli uccelli hanno una traiettoria in meno tra quelle possibili,e non se ne accorgono. Quando muore un poeta il male sorride felice di aver perso un' avversario. Quando muore un poeta/la mia vita è più piccola la mia speranza più lieve.” (Alda Merini)
Ciao Valerio.

P.S. Post aggiornato nella data del 15/01/13

Superstizione e tolleranza

A distanza di oltre tre anni e mezzo dal mio post su Pirandello e sicilianità, ritorno a scrivere di un aspetto della sicilianità spesso traslato nelle opere di autori che vengono dall'isola, ovvero il gusto e il vezzo alla superstizione.

Fin dall'antichità, la licantropia, ovvero la mitologica trasformazione di un uomo in lupo, ha suscitato un interesse in varie culture. Erodoto nelle sue Storie scrisse del popolo scita dei Neuri, che vivevano probabilmente nel territorio dell'odierna Polonia, e riportò una leggenda che li riguardava:
Una volta all'anno ciascuno dei Neuri si trasforma in lupo per pochi giorni, poi di nuovo riprende il proprio aspetto. Di questa storia non riescono davvero a convincermi, nondimeno la raccontano, e giurano di dire la verità. (Storie, Libro IV, 105)
Nella Roma antica si narra di uomini trasformatisi in lupi, e Plinio il Vecchio ne riportò "scientificamente" due casi nella sua Storia naturale. Galeno, il cui punto di vista influenzò la medicina fino al Rinascimento, parla di questa "malattia" chiamandola "morbo lupino o canino", e ne descrisse una possibile cura nella sua Ars medica. Fino al Medioevo, quando la questione, diventata ormai quasi una forma di isteria collettiva, fu ritenuta così seria al punto che migliaia sembra siano stati messi al rogo con l'accusa di licantropia.

In Sicilia, il lupinariu, termine forse derivato dal latino volgare lupus hominarius, ovvero "lupo umano o mangiatore di uomini", fa parte dell'immaginario collettivo, e in passato spesso i nonni o qualche vecchio zio raccontavano di famosi lupinari che erano diventati famosi nella città o paese in cui abitavano. Si dice che le mogli degli antichi pescatori messinesi dessero a tal proposito ai propri mariti una pezza di stoffa nera, da mettere sul viso quando dormivano sulle barche al chiaro di luna.

Pirandello non poteva mancare di incarnare questo aspetto della sicilianità più antica, che confonde il sacro con il superstizioso. La novella Male di luna, ripresa anche dai fratelli Taviani come episodio del film Kaos, fa trasparire la paura antica e recondita per l'uomo che affetto dal "male di luna", perde la sua capacità intellettiva e diventa animale. Nel racconto, in realtà Batà, il protagonista che ha nascosto la sua malattia alla sposina Sidora, è la vittima piuttosto che il carnefice: Batà vive questa sua condizione con dolore e vergogna, non potendo controllare il suo problema e non essendone la causa, perché era stato esposto alla luna quando era bambino. Paga le conseguenza di un atto di distrazione della madre, e vive lontano dalla comunità, che lo considera un tipo strano.

Anche Rosario Chiarchiaro, il protagonista della più famosa commedia La patente, è un escluso dalla società che lo considera un menagramo, che però a differenza di Batà decide di ribellarsi a questo suo status, pretendendo appunto la patente di jettatore. Chiarchiaru significa siciliano significa "frana o pietraia", e dà l'idea di un terreno arido, sconnesso e pieno di buche e anfratti, quali appunto psicologicamente è lo jettatore, almeno nella maschera che si è dato. In questo caso, lui non è più la vittima, ma diventa il carnefice, e il povero giudice D'Andrea paga per non avergli creduto con la morte del suo cardellino, ricordo della sua defunta madre, la vera vittima di questo racconto.

Il contrasto tra la condizione "sana" della collettività e la "malattia" del lupinariu o dello jettatore è in realtà uno specchio di come spesso sia altrettanto facile oggi attribuire una cattiva fama a tutto ciò che ci appare inusuale e diverso. La superstizione siciliana è solo uno strumento, perché la diversità è sempre stata considerata un fattore di imbarazzo e spesso di disturbo da ogni società umana. Il crescente revival in chiave antirazzista, il disprezzo per chi ha un'altra cultura o religione, e la tendenza a omologare in categorie ben distinte sono forme sicuramente meno superstiziose ma altrettanto pericolose di quel background che fa da sfondo comune ai due racconti citati, atteggiamento che andrebbe combattuto semplicemente con la tolleranza e il rispetto per gli altri.

Una citazione di Amos Oz riassume bene questo concetto:
Impariamo a rispettare gli altri popoli: ogni uomo è creato a immagine divina, anche se se lo dimentica continuamente (Una storia di amore e di tenebra)
Ricordare più spesso che in fondo apparteniamo tutti alla stessa specie, scientificamente parlando, sarebbe un ottimo detterrente contro la deriva delle idee che hanno portato alla persecuzione e uccisione sistematica di chi era diverso durante il periodo nazi-fascista, e alle quali gli stupidi nostalgici dei bei tempi andati tentano di dare nuova linfa. Quanto spesso ci rendiamo conto che homo hominis lupus, e senza alcun bisogno di credere nella licantropia!

Bibliografia

  • Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, 2003
  • Erodoto, Storie, Libro IV
  • Luigi Pirandello, La patente, 1917
  • Luigi Pirandello, Male di Luna, 1913
  • Lupi mannari in riva allo Stretto, 16/04/2011, su Messina.Sicilians.it

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